lunedì, dicembre 11, 2006

La filastrocca di messer Binocoluto

Pubblicato su La voce del padrone.

Fu una sera di Dicembre, il Natale era alle porte,
che messer Binocoluto incontrò comar Sordina.
Egli avea scarponi grandi, delle braghe troppo corte,
un cappello da montagna e una maglia verdolina.
Ella invece, sì compita, sulla riva del ruscello,
si trovava indaffarata a lavar gli sporchi panni,
il sapone lei fregava su un vestito proprio bello,
rosso come il solleone, vecchio forse mille anni.
E messer Binocoluto, passeggiando allegramente,
si diresse verso riva per poterla salutare,
ma ahimé lo sfortunato, forse un po' distrattamente,
inciampò in un ramo secco; proprio lì doveva stare!
Rotolò sopra le foglie, fece quattro capriole,
quando infine si fermò, massaggiandosi il sedere,
esclamò con voce grossa: “Accidenti, quanto duole!
E per tutti i santi numi, io non posso più vedere!”
Nel cadere avea perduto il suo bene più prezioso,
con gli occhiali lui poteva sì vedere tutto il mondo,
ma ora senza era perduto, 'ché ad un palmo dal suo naso
non vedrebbe un elefante mentre compie un girotondo.
Il messere di gran lena, la sua voce usò a trombone,
per cercare l'attenzione della piccola comare.
Ma ahimé come sapete, se le orecchie non son buone,
mica serve ci si sgoli, tanto è inutile gridare.
Ed infatti la comare, non avendo un grande udito,
continuava allegramente fischiettando le canzoni
a fregare sul vestito il suo sapone profumato,
mentre il nostro buon messere camminava un po' a tentoni.
Ma fu proprio in quel momento che comparve zio Dittongo,
trasportando sul carretto della legna per il fuoco,
ed udendo il gran trambusto, si gettò di mezzo al fango,
per accorrere in soccorso del messere mezzo cieco.
Ma messer Binocoluto l'altro non vedea arrivare,
nonostante zio Dittongo si sbracciasse risoluto,
'ché neppure una parola lui riusciva a spiccicare,
che disgrazia poverino, lui era poco più che muto.
Ed infatti l'incidente, che pareva ormai concluso,
prese piega assai peggiore, causa brutta scivolata.
Fu lo zio che sopra il fango scivolò col suo bel muso
dirigendo sul messere una gran bella testata.
Ed entrambi i poveretti rotolaron nuovamente,
verso riva ahimé, che mira, travolgendo la comare,
“Cade il monte! Cade il monte!” urlò disperatamente
finché non si ritrovaron dentro l'acqua ad annaspare.
Per fortuna che il messere era un bravo nuotatore
e seguendo le istruzioni di chi più di lui vedeva
lestamente portò a riva zio Dittongo e la comare,
sani, salvi e un po' bagnati, ma asciugarli non poteva.
“Per gli gnomi di foresta! Guarda lungo la corrente!”
gridò forte la comare rivolgendosi al messere.
Era il bel vestito rosso ad andar via velocemente,
il ruscello lo portava a ricongiungersi col mare.
Zio Dittongo anche se muto, cacciò un urlo prepotente,
ma il messer Binocoluto, ancor privo degli occhiali,
con la voce triste disse: “Io non vedo proprio niente,
dite tutto, che succede, ancor non son finiti i mali?”
“Disgraziati! Quel vestito, non sapete a chi appartiene?”
disse ancora la comare con le lacrime sugli occhi
“Era di Babbo Natale! Ma pensate quante pene
soffriranno quei bambini a cui non giungeranno i pacchi!”
Ma il messer Binocoluto, ch'era come pochi saggio,
pensò ad una soluzione, senza ben sapere quale,
quindi disse senza attesa, appoggiandosi ad un faggio:
“Non è solo col vestito che si fa Babbo Natale.”

mercoledì, novembre 29, 2006

I tre anelli

Pubblicato su La voce del padrone.

Dovete sapere che come la sciocchezza spesso trascina il prossimo dalla felicità alla grande miseria, così il discernimento trae il saggio da grandissimi pericoli e lo mette al sicuro. E che sia vero che la sciocchezza possa portare dalla felicità alla miseria lo si vede da molti esempi che è inutile raccontare, perché li vediamo ogni giorno intorno a noi. Ma che il discernimento sia causa di felicità ve lo dimostrerò con una novelletta.
Il Saladino (il cui valore fu così grande che non solo da piccolo uomo lo fece diventare Sultano di Babilonia, ma ancora sopra molti re saraceni e cristiani molte vittorie gli fece avere), avendo speso tra guerre e magnificenze tutto il suo tesoro, e avendo per sua necessità una subitanea urgenza di denaro, e non vedendo chi avrebbe potuto favorirlo al momento, gli venne in mente il nome dell'ebreo Melchisedech, che prestava ad usura in Alessandria e pensò che costui avrebbe potuto favorirlo. Ma conoscendolo come avaro, sapeva che non lo avrebbe fatto volontariamente ed egli non lo voleva costringere con la violenza; pensò pertanto un espediente ammantato di legalità. Fattolo chiamare lo fece familiarmente sedere accanto a lui e subito gli disse:
"Valentuomo, io ho sentito dire che sei molto saggio e che sei sapiente in religione, e perciò io vorrei da te sapere quale delle tre religioni tu reputi vera, la giudaica, la cristiana o l'araba."
Il giudeo, che veramente era un saggio, s'accorse che il Saladino voleva coglierlo in fallo, per poi muovergli una lite, e pensò che lodando egli una di queste tre, il Saladino avrebbe certo raggiunto il suo scopo. Per cui, come colui che aveva bisogno di fornire una risposta tale da non essere compromesso, aguzzò l'ingegno e rapidamente, essendogli venuto in mente quello che doveva dire, così parlò:
"Mio Signore, bello è il quesito che voi mi ponete e per dirvene quello che io ne penso, mi conviene raccontarvi una novelletta che tosto ascolterete. Se non sbaglio, io mi ricordo di aver sentito parlare di un ricco uomo del tempo che fu, che, tra i suoi tesori, aveva un bellissimo anello e volendo degnamente onorare la sua bellezza e il suo valore lasciandolo in perpetua proprietà ai suoi discendenti, ordinò e dispose che colui dei suoi figliuoli, presso il quale quell'anello fosse trovato, fosse considerato suo erede e che da tutti gli altri, come maggiore, fosse onorato e riverito. E di generazione in generazione avvenne così per moltissimi anni; ultimamente questo anello pervenne in mano ad uno che aveva tre figliuoli, tutti belli, virtuosi e obbedienti al padre e che per ciò egli ugualmente amava. E i giovani, che conoscevano la tradizione dell'anello, desiderosi di essere ciascuno il più onorato degli altri, pregavano il padre, uno per uno, di essere il prescelto e di avere in eredità l'anello alla sua morte.
Il valentuomo che amava ugualmente tutti e tre, non sapendo chi scegliere, pensò, avendolo promesso a tutti e tre, di soddisfarli tutti; e segretamente fece fare due copie dell'anello, così somiglianti che solo lui che li aveva fatti fare, appena appena poteva riconoscere il primo. E sul punto di morire, segretamente, li distribuì ai figliuoli.
Costoro, dopo la morte del padre, volendo ognuno per sé l'eredità, ed ognuno negandola all'altro, a testimonianza del loro volere, tutti tirarono fuori l'anello; e trovando i tre anelli così simili tra loro, tanto da non poter riconoscere il vero, la questione della eredità rimase in sospeso e ancora pende.
E lo stesso vi dico, mio Signore, delle tre religioni date da Dio padre ai tre popoli e delle quali mi proponeste il quesito. Ciascuno crede di essere il vero erede e depositario della migliore religione; ma chi l'abbia veramente, la questione ancora pende, come quella degli anelli."

Liberamente estratto dal Decameron di Giovanni Boccaccio, Giornata Prima, Novella Terza.

E quindi ciucciatevi il calzino voi, fondamentalisti cristiani, ebrei, islamici, rigorosamente citati in ordine alfabetico per non turbare le vostre ostentate e aristocratiche suscettibilità.
Voi, che vendete la vostra verità ad un prezzo che nemmeno Iddio, se esiste, oserebbe esigere.
Voi, che fate di Iddio lo strumento per convincere altri ad essere il vostro.
Voi, che professate il sacrificio e chiedete abnegazione giacendo sotto morbide lenzuola di seta porpora.
Voi, che distribuite stupefacenti nelle vostre Case di Dio nel tentativo di inibire la capacità di raziocinio di poveri sventurati.
Voi, che tutto spiegate con la fede ma nulla dimostrate con l'amore.
Voi, che vi arrogate il diritto di decidere come l'uomo debba vivere, come debba morire.
Voi, che vendete a tutti un'effimera altra vita pretendendo di comprare l'unica che abbiamo ad un prezzo d'occasione.
Voi, che santificate le feste con fiumi di parole ed ettolitri del nettare proibito a tutti, tranne che ai detentori dell'unica verità.
Voi, si, voi, siete soltanto dei poveri uomini!
E per questo, io, vi perdono.

venerdì, novembre 24, 2006

I ponti di Madison County

Qualche volta si ha la fortuna di incontrare una persona speciale. Raramente capita più di una volta nella vita.
Può capitare per strada, quando da un casuale e fugace incontro di sguardi si ha la sensazione di carpire ogni suo pensiero. Se si trova il coraggio di fermarsi e continuare a guardarsi negli occhi, spesso si scoprono delle affinità inimmaginabili.
Può capitare ad una festa, scontrandosi per prendere l'ultima coda di gambero rimasta sul vassoio: "Prendila tu", "Ma no dai, figurati", e intanto lo sguardo indaga, rubando e regalando emozioni.
Può capitare al telefono, per un numero composto male. Senti una voce che ti attrae, ci parli e non senti più nulla intorno a te.
A me è capitato in chat, una sera in cui preparavo la pizza e, come mio solito, sputavo idiozie sul canale che frequento abitualmente. E' cominciata per gioco, proprio sul canale, davanti a tutti. E' proseguita in privato, una battuta dietro l'altra, come spesso capita in chat.
Ma questa volta è stata diversa. Ad ogni sua frase percepivo il suo imbarazzo, il suo desiderio di aprirsi, quasi di esplodere. Ad ogni sua frase percepivo pensieri nascosti che somigliavano tanto ai miei. Ad ogni sua frase la sentivo avvicinarsi a me, e con ogni mia frase mi avvicinavo a mia volta. Ma c'era qualcosa in sottofondo, un brusio latente, qualcosa che non riuscivo a percepire chiaramente.
Poi ho finalmente capito: è come me. Ha le mie stesse aspirazioni, gli stessi sogni. Ha i miei stessi bisogni e conosce il modo giusto per soddisfarli. Siamo le due metà di una goccia d'acqua, che perse nell'immensità dell'oceano si cercano senza sapere l'una dell'esistenza dell'altra. E quando si trovano diventa tutto naturale, spontaneo, indispensabile.
Mi è mancata da subito, ancor prima di vederla. Ho sentito crescere impetuoso in me quel sentimento che solo pochi fortunati provano nella vita. E lo sentivo crescere anche in lei, con lo stesso ritmo, gli stessi tempi, le stesse sensazioni.
Vederla è diventato indispensabile, un bisogno primario. Ho guidato tre ore per raggiungerla, per starci insieme nemmeno mezzora. E' stata la mezzora più lunga di tutta la mia vita e allo stesso tempo la più corta; sicuramente la più intensa. Il suo abbraccio racchiude un affetto tutto speciale, i suoi baci infondono tutto l'amore del mondo. Lasciarla andar via è stato come un pugno allo stomaco. Vederla andar via, la morte nel cuore.
Poi c'è stata la spiaggia. Arrivarci mano nella mano. Stare abbracciati sull'asciugamano, sferzati dal vento e tormentati dagli insetti, e non sentire null'altro che il reciproco calore. E poi l'abbraccio dei nostri corpi nudi, protetti da un involucro di metallo che sembrava una reggia.
Ed ora mi ritrovo con il cuore che scoppia d'amore senza poterglielo dare. Perché ho dovuto dirle addio. Ho dovuto obbligarmi a non sentirla più, violentandomi. Ma ad ogni squillo del telefono, ad ogni messaggio che arriva sul cellulare, il mio cuore ha un sussulto ed egoisticamente spero che sia lei. La voglia di sentirla è tanta. La voglia di vederla, immensa. La voglia di amarla, lacerante.
Io questa volta ho avuto la fortuna di incontrare la mia persona speciale. Siamo le due metà di una goccia d'acqua divise da un oceano di problemi, la mia piccola ed io.

martedì, novembre 07, 2006

Il fattore Va

Pubblicato su La voce del padrone.

Tutto si riduce ad una rappresentazione gaussiana.
La gaussiana, che non è affatto una procace abitante della fantomatica città di Gauss, ci insegna che la maggioranza di una popolazione statistica si attesta intorno alla media. Man mano che ci si allontana dalla media, la frequenza diminuisce con un andamento curvilineo discendente detto (appunto) gaussiano.
Con media, nel caso specifico, non si intende una serie di persone fatte con lo stampino, bensì quell'enorme ammasso di individui il cui equilibrio tra qualità e difetti si attesta intorno allo zero.
Supponiamo di assegnare ad ogni qualità un livello compreso tra zero (assenza totale) e infinito (individuo completamente intriso della qualità in oggetto). Ipotizziamo altresì di assegnare ad ogni difetto una scala simile, compresa sempre tra i valori zero (il diffetto non esiste) ed infinito (accidenti se esiste).
Siano:


enunciamo qui di seguito la formula fondamentale per il calcolo di F:


Ebbene, se prendessimo in esame un numero elevato di individui, rileveremmo senz'altro che la maggioranza degli F si attesta intorno allo zero. La frequenza dei valori ottenuti andrebbe a formare, come dicevamo, una rappresentazione grafica approssimata da una curva gaussiana.
Questo non significa certo che tutti gli individui con lo stesso valore di F siano uguali. Un valore pari a zero potrebbe essere originato da molti Q di livello medio/basso bilanciati da un D di livello altissimo. Certo, se questo D fosse la prerogativa dell'individuo in questione di puzzare come una scrofa, non sarebbe semplice da affrontare, ma una buona protezione olfattiva (leggi: maschera antigas) aiuterebbe a renderlo quasi gradevole, nell'eventualità che un corso intensivo di scrostamento e pulizia del corpo non fosse sufficiente a ridurre drasticamente il livello del D.
Un altro fra i tanti casi possibili di F uguale a zero è quello (rarissimo) in cui tutti i livelli di Q e D sono perfettamente identici. Ma in questo caso cambia moltissimo a seconda del livello, perché se un F=zero con i Q e D prossimi allo zero sarebbe sopportabile (per quanto probabilmente sciatto e infinitamente noioso), un F=zero con i Q e D prossimi all'infinito sarebbe senz'altro un individuo schizzofrenico e forse, proprio per questo, geniale.
Per ottenere quindi altri indicatori significativi si calcolano:




Come avrete certamente già intuito, la somma di questi valori darà origine a C:


dove C è l'indice di schizzofrenia dell'individuo.
E' inoltre calcolabile molto facilmente l'indice di miglioramento.
Data:


l'indice di miglioramento U sarà ottenuto dalla formula:


Nota: è evidente che il valore di U per un individuo appena nato sia pari ad infinito. Del resto è inopinabile che il repentino passaggio da una sacca di liquido amniotico ad una culla con tutti i comfort sia un deciso passo avanti.
La speranza di miglioramento di una società è data dalla formula:


dove:


L'ultimo indice, la cui formula attende ancora dimostrazione, rappresenta la capacità di un individuo di prenderlo nel didietro dalla società senza soffrirne troppo o reagire in maniera inconsulta:


Come il lettore potrà facilmente dimostrare da se, l'individuo noioso di cui si parlava poc'anzi si troverà il traforo del Monte Bianco al posto del deretano.
Infine, moltiplicando fra loro gli indici finora presentati, si ottiene il valore del fattore Va, ovvero la potenza dell'epiteto con cui gli individui che hanno letto fino alla fine il mio trattato (ma con buona probabilità anche coloro i quali si sono rotti prima i maroni) vorrebbero apostrofarmi:

 

domenica, ottobre 22, 2006

E io mi domandavo se i pesci dormivano nel letto

Pubblicato su La voce del padrone.

Io quando ero più piccolo facevo il campeggio. Ci andavo con mia mamma e mia sorella, perché mio papà non ci veniva con noi, che non viveva più in casa nostra. Mi ricordo che mi dovevo svegliare presto perché passava il treno. Alla stazione ci dovevamo andare a piedi, perché nel motorino di mia mamma non ci stavamo in tre. Che poi c'erano anche le valigie, e quelle non erano mica leggere. Nel treno faceva sempre caldo e a volte c'era il sole che bruciava gli occhi. Per fortuna c'era la tenda, ma se la chiudevi tutta c'era buio, quindi bisognava fare un po' e un po'. Quello era un treno lento, che mi chiedevo sempre perché non ne prendevamo un altro, e ci voleva tutta una mattina per arrivare a Macomer. A Macomer c'era il pullman e quello ci portava fino a Bosa. Mia mamma mi diceva sempre che il pullman ci aspettava e io mi sono sempre creduto che mia mamma conosceva quello che guidava il pullman, ma forse mi prendeva in giro perché una volta il pullman non ci ha aspettato mica.
A Bosa era bello, perché passavamo sul ponte stretto stretto che il pullman quasi non ci passava e i signori che camminavano a piedi si mettevano girati per non farsi schiacciare i piedi. Dal ponte si vedeva la casa di zia Agnese. E si vedeva anche zia Agnese che ci aspettava sempre affacciata al balcone e quando vedeva il pullman lo salutava con la mano. Ma forse lei lo faceva con tutti i pullman, solo che negli altri io non c'ero e non la potevo vedere. Che poi io di quel balcone c'avevo paura perché sembrava rotto e ogni volta che mi affacciavo mi girava la testa, non lo so perché. Mi ricordo che zia Agnese comprava sempre le angurie giganti quando venivamo noi, e io ne mangiavo un sacco e ne volevo altra anche quando era finita. Però zia Agnese la sapeva solo comprare l'anguria, perché a tagliarla ci riusciva solo zio Domenico. Era bello mio zio Domenico. Aveva gli occhi celesti e uno era storto, che sembrava che ti guardava sempre l'orecchio, però lui faceva il pescatore e questo a me mi piaceva. Io volevo sempre andare sulla sua barca, ma mi diceva che ero ancora piccolo. Che poi non lo so se ci andavo davvero, perché loro si alzavano alle quattro del mattino. Io nemmeno lo sapevo com'erano le quattro del mattino, però mi credevo che andavano così presto per catturare i pesci quando erano addormentati. E io mi domandavo se i pesci dormivano nel letto. Che poi lui non prendeva proprio i pesci, ma pescava le aragoste. Io c'avevo paura delle aragoste perché erano brutte e sembravano i mostri. Che poi io i mostri non ce li avevo mai visti, però pensavo che potevano essere come le aragoste. Allora non le mangiavo. Però forse ero un po' stupido.
Poi un giorno veniva zio Delio e ci portava al mare. Dormivamo nella sua tenda che era marrone e grande. Il posto dove andavamo era “S'abba druche”. Che poi io non lo sapevo mica che “S'abba druche” voleva dire “L'acqua dolce”. E forse non me ne importava mica niente. Quando arrivavamo c'era mia zia Rita con i figli che erano già al mare, tutti neri abbronzati, e lei sorrideva sempre quando ci vedeva arrivare. Io credo che sono molto amiche lei e mia mamma, anche se sono cugine. Io volevo sempre fare il bagno appena ero arrivato, ma mia mamma c'aveva sempre da dire di no. Non lo so perché, ma tanto poi mia zia Rita la convinceva e io il bagno me lo facevo lo stesso. Bisognava scendere i gradini di terra per andare nella spiaggia, perché la tenda era più in alto. Mio zio Delio la metteva sempre nello stesso posto, la tenda marrone. E anche tutti quegli altri che conoscevamo la mettevano nello stesso posto, ma non quello di mio zio Delio. Ma le tende non erano attaccate e c'erano i passaggi, che noi le chiamavamo le strade e gli davamo pure i nomi, ma adesso non me li ricordo mica più. E poi dietro c'era la montagna che sembrava che non si poteva arrivare fino a sopra, ma una volta ci sono arrivato fino a sopra, insieme agli altri. Però me lo ricordo che da sopra si vedeva il campeggio. Si vedeva la tenda marrone di mio zio Delio ma era piccola e io non lo so se c'era qualcuno dentro quando era così piccola. E poi si vedeva il mare. E si vedevano le barche piccole piccole e lontane lontane. Un signore che c'era lì sopra perché era venuto con noi mi aveva detto che più lontano di tutto c'era l'orizzonte. Mi diceva che l'orizzonte era la linea dritta dove finiva il mare e incominciava il cielo. Io non lo sapevo mica che il mare finiva. E poi lui diceva che era dritta, ma a me mi sembrava un po' storta però. Lui mi diceva che era perché la terra era tonda. Allora io guardavo per terra ma non mi sembrava tonda, però mi stavo zitto perché lui era un signore grande. Quando scendevamo poi eravamo tutti stanchi, ma quel signore dell'orizzonte era il più stanco di tutti. Io pensavo che era perché diceva le bugie, ma non lo dicevo a nessuno però.
Mio zio Delio poi era il sindaco del campeggio. Ma era un sindaco per finta, però tutti lo cercavano quando c'avevano bisogno. Io non lo so perché era lui il sindaco. Forse perché pescava i ricci. Forse perché beveva molto vino e lo invitavano sempre tutti a bere il vino. Una volta me lo ha fatto assaggiare il vino, mio zio Delio. Lui mi ha detto di non dirlo a mia mamma e io non gliel'ho detto. Però il vino era buono. Di notte eravamo tutti nella tenda di mio zio Delio e di mia zia Rita. C'erano le stanze nella tenda, che erano marroni però più chiare. Nella stanza che dormivo io c'erano anche mia mamma e mia sorella. Mi ricordo che a volte c'avevo paura perché c'era il vento. E quando pioveva e facevano i tuoni avevo paura più di tutto, perché sembrava che un gigante stava prendendo la tenda con la mano per strapparla via. Ma poi mi hanno detto che i giganti non esistono, però c'erano le capre. Di mattina sentivo sempre le campane delle capre, perché c'era il pastore che le portava dentro il campeggio. E quando uscivamo fuori c'era la cacca a pallini e allora capivamo che erano le capre. Il signore che faceva il pastore era un signore vecchio. Mio zio Delio lo conosceva e allora qualche volta ci portava il latte delle sue capre che se lo bevevi poi non c'avevi più fame fino alla merenda. Una volta quel signore mi ha fatto lottare con il suo caprone perché io dicevo di essere più forte. Però non ho mica vinto. Era più forte il caprone.
Di mattina era presto quando ci alzavamo, perché nella tenda era caldo e perché noi bambini volevamo andare a correre. Andavamo sempre nella spiaggetta di zio Delio. Che poi non lo so se era la sua, ma però tutti dicevamo così per mandar via gli altri. Era piccola quella spiaggia e c'era l'acqua bassa, perché sotto l'acqua c'era la roccia liscia. Però c'erano i ricci e una volta mi hanno punto perché non avevo messo i sandali e mia mamma mi ha tolto le spine con le pinzette. Però era bello perché sembrava che camminavi sull'acqua. Quando finiva la roccia c'era l'acqua alta che era scura e faceva paura. Mio zio Delio mi diceva sempre di non andarci, ma lui ci andava e quando tornava aveva pescato i ricci. Una volta li abbiamo usati per combattere, i ricci, ma era solo la buccia, perché erano già mangiati. Li tiravamo addosso a quelli dell'altra spiaggia che venivano a scocciare. Meno male che non lo hanno detto ai grandi.
Un giorno sono andato sulla spiaggia a giocare e ho bisticciato con uno. Non me lo ricordo perché abbiamo bisticciato, ma sua mamma ci ha separati e ci ha detto di fare pace e noi l'abbiamo fatta. Da quel giorno abbiamo giocato sempre insieme e io lo chiamavo AmicoNemico perché avevamo litigato ma poi avevamo fatto pace. E anche lui mi chiamava così. Quando era di sera andavo nella sua tenda e chiedevo alla mamma se poteva venire con me nella mia tenda, ma lei a volte non voleva. Ma quando voleva andavamo sulla spiaggia di nascosto per guardare il sole che tuffava nell'acqua e le onde alte. A volte andavamo anche a correre nelle rocce che tanto avevamo i sandali di plastica, ma era pericoloso lo stesso. Forse se non era pericoloso non lo facevamo. Alcuni altri bambini erano caduti e si erano fatti male, al ginocchio o alla faccia. Io solo alle mani, una volta, ma poco. I grandi non volevano che andavamo sulle rocce a correre. Forse se volevano non lo facevamo.
Poi lui doveva partire e io ero triste. Dovevo restare ancora lì due settimane e lì mi piaceva, però se lui non c'era mi piaceva un po' meno. Forse lui era di Roma, mi sembra. Io pensavo che veniva l'anno prossimo, ma non c'era. Però io l'ho aspettato. Anche l'anno prossimo ancora.

L'ho rivisto dopo quattro anni, forse cinque. L'ho riconosciuto quasi subito, ma per salutarci e riconoscerci ufficialmente abbiamo titubato un po'. Ricordo che abbiamo parlato molto degli avvenimenti degli ultimi anni. In breve, ci siamo raccontati, cosa che non avevamo fatto quattro anni prima. Siamo tornati a sederci sulla spiaggia al tramonto, sperando in una bella mareggiata. A correre sulle rocce però non ci siamo andati. Forse in quei quattro o cinque anni qualche cosa l'avevamo imparata.
Siamo rimasti insieme solo qualche giorno, perché quell'anno sono tornato a casa prima del solito. Quella è stata l'ultima volta che l'ho visto e che ci ho parlato.

Non so se lui si ricordi ancora di me, dopotutto sono passati vent'anni. Sono però certo che tra altri vent'anni sentirò ancora di essere il suo AmicoNemico.

E questo è tutto quanto avevo da dire su questa storia.

domenica, ottobre 15, 2006

Un sogno per domani

Da bambino immaginavo mondi incantati, dove ogni desiderio veniva realizzato: le scuole chiuse, la bicicletta nuova, il mare nel giardino di casa nel quale tuffarmi dal balcone della mia camera da letto la mattina appena sveglio.
Sognavo di volare tanto così sopra la testa delle persone, evitando le loro mani tese verso l'alto nel tentativo di acciuffarmi, con virate strette oltre i limiti delle leggi fisiche. Ridacchiavo per i loro patetici, inutili saltelli. Eppure non riuscivo ad allontanarmi troppo da terra; i miei sporadici voli, per quanto sensazionalmente acrobatici, si consumavano sempre a pochi metri dal suolo.
C'è stato un periodo che ricordo con amara nostalgia, in cui riuscivo a pilotare i miei sogni decidendo cosa sognare poco prima di addormentarmi, come se scegliessi un film da vedere al cinema. Nessun telecomando magico; mi era sufficiente sdraiarmi sul letto e cominciare ad immaginare il sogno che avrei voluto vivere quella notte, fino a che non fosse arrivato il sonno a proseguire il lavoro.
E se per caso mi fossi svegliato prima del gran finale? Nessun problema, perché la notte successiva avrei ripreso dal punto esatto in cui il risveglio aveva interrotto il mio sogno, come se la giornata non fosse stata altro che una lunga e fastidiosa pubblicità.
Ora che bambino non lo sono più, perlomeno anagraficamente, ho perso queste meravigliose doti oniriche. Non per questo però ho perso la voglia di sognare, di costruire con l'immaginazione i miei mondi incantati e di immaginarmici dentro, in ruoli che in questo mondo non potrò mai ricoprire.
Grazie alle meraviglie che questi mondi fantasiosi mi offrono, come la possibilità di essere chiunque e qualunque cosa io desideri, mi ritrovo a lavorare sul me stesso reale, per migliorarmi e migliorare l'infinitesimo spicchio di mondo che mi circonda, per avvicinarmi a microscopici passi alla perfezione dei miei sogni.
Dopotutto, non mi dispiace affatto quello che sono. E sono certo che domani mi piacerò un po' di più.

domenica, ottobre 08, 2006

...e della patatina

Continua da Del cetriolino...

Dopo l'illuminante discussione del venerdì sera, il sabato pomeriggio, nel totale rilassamento concesso alle stanche membra dal mio comodissimo divano, ho riflettuto. Ho pensato tra me e me (anche perché per pensare tra me e qualcun altro dovrei essere telepatico): "Però, vedi te quante paturnie si fanno le donne sul nostro cosino".
Poi però, sfruttando la mia innata e famosa dote autocritica, mi sono autoformulato una domanda bastarda: "Tu non hai mai fatto analoghi ragionamenti sulla... ?".
Empasse. Volevo darle un nome che non fosse volgare né troppo tecnico.
Allora, anche per una sorta di par condicio, ecco qui qualche modo alternativo di chiamare l'agognato pertugio (ora non gridateli sperando che arrivino nelle vostre mani frotte di cespuglietti): accattatronchi, acchiappavampiri, afflosciapertiche, aiuola, alberta, albicocca, antro pelosetto, apecheronza, a' pelos', astuccio, attizzabanane, azzittapreti, baccigalupa, baffetta, bagascia, bagerda, bagianna, bagnasciuga, baia dei porci, balusa, barbana, barbisa, bargiggia, bartòca, barzigola , basagna, basciara, battilarda, bergnifula, bernarda, bertuela, bezza (friulano), birindella, bocciolo, brigna, broddoi, bugna, buscia, caga bocie, canappa, cancello, carmensita, casa dolce casa, castagna, caurella, cava marocca, caverna, C'coria (cicoria in dialetto salernitano), cecafella, ceciotta, centrillo, certosina, Chella ca guarda 'n terra (presente sul tabellone della Smorfia napoletana), chiavica, ciabatta, ciacchera, ciamporgna, cicala, ciccia, cimosa, cinciallegra, ciola, ciorciola, ciornia, cirilla, ciscia (da un sonetto del Belli), ciuccia (dal dialetto di Chieti), ciuetta (dal dialetto marchigiano), ciufeca (da un sonetto del Belli), ciunna (dal dialetto ciociaro), cocona (dal dialetto veneziano), cocchia (Ancona, Numana, Sirolo, Camerano), conno (dal latino cunnus), conto in banca (Benigni), coteca co lo pilo (Marche, con riferimento alla cotica di maiale), cozza, crepaccia (Benigni), crosara (in dialetto veronese incrocio a 4 strade), cunna (da un sonetto del Belli), cunnu (dialetto sassarese), curciu (Lecce), cut (da Shakespeare), dove che te pissi (veneto), ernesta, fagiana, fagiolina, fallicida, farfadulla, farfalla, farticchiu, farsora (veneto: padella che serve per friggere), fasulara, fava, fazana, fella, felputino, fessa (da un sonetto del Belli), fica (da un sonetto del Belli), fifina, figa, filettina (Benigni), filiberta, finestrella (da un sonetto del Belli. Ndr: questo Belli era proprio un gran maiale), fiocca (Cremona), fioppa, fiora (veronese), firillacchera, fisarmonica (Benigni. Ndr: seguace del Belli?), fischiarola, fissa, flippa, foca, fodero (da un sonetto del Belli. E daje), folpa (Veneto), fornetto, fragolina, fregna, fresella, friciolina, frinfrella, frisella, frittola, frugolina, fuffola, furicule, garage, gatta, gegia, gigina, gimbarda, gina, gnaola, gnocca, gnogna, grotta, guersa, gunnu, hotel, ingoiacippe, iòna, iula, labbra verticali, leccornia, lenticchia della nicchia, lerchia, lumachina bavosa, l'amica che gira in pelliccia anche in pieno agosto, lubrificapertiche, mafalda, mangiapiselli, marmotta, meccia, meneghina, micia, mollichina, mona, mouzza, mussa, nido, 'ntacca, orgasmino, pacchiu, paccioccio, paffia, pafonza, pagnotta, papaia, papera, papogna, pappaddonciu, pappaggliuolu, parpagghiune, parussola, passera, patacca, patafiora, pataguersa, patana, patarchia, patasgnacchera, patata, patonza, pavea, p'ccion, pecchia, pelandra, pelliccia, pennica (da una canzone degli Squallor), perdesca, pertugia, pertusiello, picchiaccone, pichinicchia, pillitu, pipilla, pipina, pipistrella, pirchiacchia, piripilla, pisciotta, pittera, potta, pricoca, prugnetta, pucchiacca, pussy, quella cosa che finisce per no (me la dai? no!), repella (Avellino), sabongia, sala giochi, salatina, sartacena (Basilicata), sbarzifula (dal dialetto ossolano), sbrinzia, scarciofotta, sciacquanerchia, sciscì, scrigno, scruacchia, sdraiacazzi, selva oscura, sfarfallapifferi, sgnacca, sgnacchera, sisolina, sorca, spaccazza, spelonca, squinzia, sticchio, sucarola, sverta, tabbacchera (Basilicata), tabernacolo (Benigni), tacchina (Benigni), tagliola (da un sonetto del Belli), tana, taratofola, temperamatite, topa, traforo del san bernardo, triangolo, tromba, tuffola, tulipana, tunnel dell'amore, turlio, ubalda, udda, un vago ricordo, vaccara, vagina, vappagghiu, ventosa, veri-fica-banconote, verza, vispa teresa, vongola, vora, vulva, zabrisca, zaffa, zempiffera, zenzera, zergnapola (pipistrello femmina in dialetto veronese), zinzin, zunnu (tempio), zuzzera. Per la lista completa degli oltre 800 (ottocento) sinonimi guardate qui.
Ecco, fatto. Espletati i doveri sulla par condicio, ho ripreso le amare riflessioni sulla vispa teresa.
E in effetti, debbo dare ragione all'esperta (non che le avessi dato torto, sia chiaro): anche l'occhio vuole la sua parte. Per esperienze dirette e indirette, posso affermare senza timor di smentita di conoscere intimamente una discreta serie di differenti sisoline, tutte carucce per carità, ma ognuna diversa per forma, colore, dimensione, umidità, accoglienza (non sempre la reception dell'hotel fa bene il suo dovere), colore e perché no, profumo e sapore.
Quindi anche la patonza può essere elegante e, di conseguenza, inelegante. Ora non vi posso descrivere l'immagine che è passata rapidamente attraverso i miei neuroni preposti ai pensieri lussuriosi, ma vi assicuro che mi è corso un brivido lungo la schiena fin giù per il coccige, ha attraversato il perineo ed è tornato su per la pancia. Brrrrrrr.
Ora ho finalmente una missione, uno scopo (esagerato!) nella vita: trovare la patata perfetta. Certo, sarà faticoso, dovrò essere un esaminatore attento ed imparziale. Dovrò basarmi solo sull'analisi razionale di ciò che vedrò, annusserò, assaggerò. E quando l'avrò trovata (si, perché la troverò), solo allora raggiungerò l'apice della felicità, salvo poi accorgermi che la donna intorno all'ineguagliabile pertugio sarà tutt'altro che perfetta.
Ma volete mettere la soddisfazione di un coito elegante contro l'immane fatica e l'indomita perseveranza necessarie a costruire l'Amore (quasi) perfetto?
Già... volete mettere?
Non c'è confronto, ovviamente.

Del cetriolino...

Venerdì sera mi sono ritrovato a casa di amici. Tra un frizzo, un lazzo e un gesto istrionico, verso la una del mattino abbiamo deciso che il calo di zuccheri era diventato insostenibile, per cui ci siamo messi a preparare dei leggerissimi profiteroles ed una specie di torta con pan di spagna, panna montata, cioccolato fuso e farina di cocco.
Mentre attendevamo che i preparati accuratamente riposti in frigorifero raggiungessero la temperatura migliore per consumarli (ndr: una temperatura minimamente accettabile, vista la fame incombente), ci siamo ritrovati a discorrere amabilmente seduti attorno al tavolo.
I primi argomenti affrontati hanno quasi estirpato la voglia di profiteroles dal nostro cervellino: stitichezza, diarrea e coito anale. Non mi dilungherò troppo nel descrivere le illuminate conclusioni; dirò solo che i profiteroles li abbiamo gustati comunque.
Dopo che due dei giovani virgulti presenti hanno abbandonato il desco per dedicarsi a più piacevoli dissertazioni (o meglio pratiche: sesso o sonno), il discorso si è spostato, grazie ad un intervento dell'esperta dell'allegro gruppetto, sul pene di Rocco Siffredi. Pare infatti, a detta dell'esperta, che l'opinione comune assegni al suddetto pene una bellezza (oltre che una prestanza, quindi) fuori dal comune. L'esperta, però, non si è detta daccordo.
Apro una piccola parentesi per sottolineare il fatto che inizialmente c'è stata una piccola empasse sul nome dell'attrezzo. Qualcuno ha detto "pene", qualcun'altro "cazzo". Eppure i nomi affibbiatigli non mancano di certo (in ordine rigorosamente alfabetico quei pochi che ho avuto voglia di trascrivere): alabarda, alzabandiera, anaconda, arnese, atlascopco (ma chi diamine se l'è inventato questo?), attrezzo, azzittamonache, bacchioloscopio, banana (classico), bastoncino findus (per i modesti), batacchio, bega, belìn, biberone, biscotto, biscottone (solo per i più dotati), black&decker, cacchio, calippo, cannolo, capitone, ceppa (solitamente abbreviativo di "ceppa di minchia"), cetriolo, cianciola, ciolla, cippalippa, clarinetto, cogno (rubato dallo spagnolo, se non erro), coso, creapopoli (manie di grandezza, eh?), crescinmano (quantevvero), dardo, diciotto uso famiglia (saranno i centimetri di chi ha coniato il termine?), drago, durlindana, estintore, excalibur, fallo, fava, fella, festuca, flauto in pelle, fungia, gelato, ghigno, gingillo, giuan capucchion, grande capo, grimaldello, guerriero di porpora, hozzo (sarà toscano?), i'ccricchedellacinquecento, il feroce Salamino, il vendicatore calvo, jojò, joystick, kinderbueno (per le più golose), lecca lecca, legno, mafrogno, maglio perforante (esoso), mandingo, mandrillo, manganello, manico (e derivati), margiano, mattarello, mazza, melanzana (chiedo scusa a chi si sente colpita, ma c'era anche questo), membro, merlo, minchia, mostro (per le amanti dell'orrido), natta, nerchia, nervo, obelisco, organo, oseo, pacco, papagno, papocchio, pasquale (la mazza centrale, vicina di ernesto il testicolo destro ed evaristo quello sinistro), pendaglio da sorca, pene, periscopio, pertica, picionco, pillona, pipillo, pipino, pippolo, pirillo, piripicchio, pirla, pirulino, pisello (da cui pisellino e pisellone per adeguarsi alle varie misure), pistillo, pistola, pistone, pitone, proboscide, punta di trapano, putrella, quaiàt, ragioniere (ma de che?), randello, rocco, salame (e varie derivazioni), sarchiapone, sbaranbaus, sbatacchione, schiatta fessa, scupett, serpe (c'era anche questo, che ci volete fa'), sfibramorroidi, sfilatino, sfondapucchiacche, sguarramazzo, siluro, smafaro, sommergibile, spadone, spegnivoglia, spicaluru, spinterogeno, sputabambiniliquidi, sputa putei, squartamucche, staggia, stanga, stummu, sventrapapere (e la sua variante sventrapassere), taganello, tappabuchi, tarello, termometrone, torello, tranciapolli, trapano, trecchia, trivella, tromba, tronchetto, turlone, uccello, ugo, useo (uccello veneto, credo), vasacallo, verga, vranca, wafer, wuberone, zammara, zampone, zibibbo, zifone, zizernello, zucchino, zuffolo, 'zzo.
Questi sono solo alcuni degli oltre 700 (settecento) sinonimi utilizzati per chiamare il tanto discusso arnese. Potete trovarli tutti qui (risparmiatevi le battute sul servizio fornito dal sito: non lo utilizzo, ma se volete provarlo sono sputabambiniliquidi vostri).
Tornando al wuberone del buon Rocco, la mia bastarda curiosità mi ha spinto a porre la domanda che tutti i presenti, sotto sotto, si ponevano ma che probabilmente non avevano il coraggio di fare (o forse, semplicemente, sono stato più rapido degli altri): cos'aveva l'ammennicolo in questione per ingenerare cotanta smorfia di disgusto (ho vista il viso dell'esperta, stava a pochi centimetri da me, e vi assicuro che se non era disgusto poco ci mancava)?
Dopo qualche smorfia indecisa, qualche gesto con le mani a mimare l'orripilante deformità, siamo riusciti ad avere un identikit del tanto discusso sarchiapone.
Ora, se volete vedere il nervo di Rocco non starò certo qui a descrivervelo: sono certo che non avrete difficoltà a trovarne una fedele riproduzione fotostatica semplicemente cercando su google. Sta di fatto che, dall'identikit e dalla prima domanda, mi è partita la seconda curiosità bastarda nei confronti della nostra esperta: come dovrebbe essere un guerriero di porpora per piacerti?
"Elegante."
Beh certo, elegante...
Elegante?
Perbacco, certo, di pirla in frack ne ho visti tanti, ma erano pirla metaforici. Avevano due gambe, due braccia, due occhi, un cervello (spesso inutilizzato).
Come sarà mai un black&decker elegante (questa era la terza domanda bastarda, scaturita in coro da parte di tutti gli astanti)?
"Bella forma, bel colore."
Ah certo... eh si.
Bella forma, bel colore. Questo sfama la vista. Poi immagino necessiti anche di un invitante profumo, un buon sapore. Certo che se parlasse e facesse pure discorsi interessanti...
Insomma, alla fin della fiera, non abbiamo ben capito come dovrebbe essere uno sventrapapere perché possa fregiarsi dell'etichetta di eleganza della nostra esperta, ma a quanto abbiamo appreso la cosa importante è che non sia a manico d'ombrello o a curva di San Sperate.

Continua su ...e della patatina.

giovedì, ottobre 05, 2006

Un volo pindarico

Pubblicato su La voce del padrone.

L'acqua è la fonte primaria di sostentamento per la stragrande maggioranza degli animali pluricellulari presenti sulla terra. E' una fonte naturale, teoricamente inesauribile, praticamente in esaurimento. È insapore, inodore, incolore.
Il pane è la fonte di sostentamento più importante, dopo l'acqua, per tutto il genere umano. E' una fonte derivata, neppure troppo semplicemente, dalla lavorazione di diversi elementi naturali, quali acqua, grano, sale. È saporitissimo, emana dei profumi fantastici in cottura, può assumere diverse colorazioni a seconda degli ingredienti, della preparazione, dei tempi di cottura. Ci sono voluti secoli di perfezionamento, fin dalla preistoria, quando gli uomini pestavano le ghiande per ottenere una farina da cui preparare un pane simile ad una focaccia, perché arrivassimo al pane che conosciamo oggi. Con l'introduzione della lievitazione da parte dei babilonesi, perfezionata poi dagli egizi. Con l'aggiunta di altri ingredienti, come il sale e l'olio, e l'istituzione dei primi forni da parte dei greci. Con l'opera di diffusione operata dai Romani, che probabilmente diedero i natali al pane che conosciamo oggi. Il periodo del Rinascimento diede poi l'ultima spinta così che il pane divenisse l'alimento più diffuso in tutti e tre i mondi. Beh... almeno nel primo e nel secondo.
Il pane e l'acqua insieme costituiscono gli alimenti convenzionalmente elevati a minimo pasto utile al sostentamento di un essere umano. Anche di un cane, in effetti. Figuriamoci poi di un topo. L'espressione “a pane e acqua” è universalmente conosciuta e riconosciuta; la pratica del cibarsi di questi due soli alimenti viene sovente assegnata come tortura o punizione, scelta come penitenza, usata come mezzo per l'elevazione dello spirito. In tutti i casi comunque, l'alimentarsi con i soli pane ed acqua è definito come un sacrificio. Tranne che per Pannella; per lui il sacrificio sono un caffè e una pasta la mattina a colazione.
Il pane inoltre, in quanto alimento dipendente dalla disponibilità delle materie prime che lo compongono, ha attraversato le diverse epoche adattandosi alle necessità degli uomini. Quelle alimentari perlomeno. Così nel medioevo la povera gente era costretta a preparare il pane con l'orzo e il farro, perché non potevano certo permettersi il costosissimo frumento. Spesso la mancanza di alimenti non è stata globale, bensì localizzata ad alcune regioni; il pane originario di Perugia viene preparato senza l'uso del sale a causa del fatto che, per un lungo periodo di tempo, nella Perugia medioevale ci fu un aumento vertiginoso delle imposte sul sale, che causarono alla fine una rivolta della popolazione (passata alla storia come Guerra del Sale), sedata dalle truppe del pontefice Paolo III, il quale, a seguito di questa guerra, diede inizio alla costruzione della splendida Rocca Paolina.
Oggi siamo abituati all'abbondanza di ogni bene. Ci lamentiamo se al supermercato non troviamo almeno due marche diverse di farina, perché siamo convinti sia nostro inviolabile diritto scegliere quella che riteniamo, a torto o a ragione, la migliore, per poi renderci conto che puzza di topo morto e ne porta lo stesso sapore. Però che diamine, l'abbiamo scelta noi.
Ma cosa succederebbe se domani venisse a mancare uno degli ingredienti? E se ne mancasse più d'uno? Meglio ancora, cosa accadrebbe se non potessimo cuocere (e quindi cucinare) più nulla?
Lo so, sembra un'eventualità impossibile, eppure la storia ci insegna che le cose impossibili tendono a smentire la loro natura più spesso di quanto non crediamo. Personalmente avrei ritenuto impossibile vedere una mortadella al governo, ma tant'è.
Il clima mondiale sta cambiando. Alcune specie animali sono in via d'estinzione, altre sono già estinte. Anche la flora subisce il cambiamento senza apparenti lamentele; certo, da una begonia gigante del Brasile non ci si aspetta mica una manifestazione di piazza. Dallo strato di permafrost in assottigliamento si stanno liberando le sacche di metano imprigionate da centinaia di migliaia di anni, incrementando l'effetto serra che ne provoca la liberazione, alimentando così un circolo vizioso che, nel peggiore dei casi, cambierà radicalmente la composizione della nostra atmosfera. Anche le profondità marine hanno il loro simpatico strato di permafrost, che conserva sacche di metano e mantiene stabili le placche continentali; un suo assottigliamento potrebbe provocare immani catastrofi. Ma l'uomo generalmente non è lungimirante e vede ben poco al di là del suo spazio vitale; l'importante è poter uscire di casa, prendere la propria automobile, recarsi al proprio ristorante preferito e ordinare una bella bistecca al sangue, ma che provenga da allevamenti biologici per carità!
Chissà, forse un domani ci renderà felici la semplice consapevolezza che al pranzo della domenica verrà servita una razione abbondante di pane e acqua, ma è un domani che mi auguro di non arrivare a conoscere.

sabato, settembre 30, 2006

Canzone quasi d'amore

Non starò più a cercare parole che non trovo
per dirti cose vecchie con il vestito nuovo
per raccontarti il vuoto che al solito ho di dentro
e partorire il topo vivendo sui ricordi,
giocando coi miei giorni,
col tempo.
O forse vuoi che dica che ho i capelli più corti,
o che "per le mie navi son quasi chiusi i porti";
io parlo sempre tanto ma non ho ancora fedi,
non voglio menar vanto di me o della mia vita,
costretta come dita
dei piedi.
Queste cose le sai perché siam tutti uguali
e moriamo ogni giorno dei medesimi mali;
perché siam tutti soli ed è nestro destino
tentare goffi voli d'azione o di parola,
volando come vola
il tacchino.
Non posso farci niente e tu puoi fare meno,
sono vecchio d'orgoglio, mi commuove il tuo seno,
e di questa parola io quasi mi vergogno,
ma c'è una vita sola, non ne sciupiamo niente
in tributi alla gente,
o al sogno.
Le sere sono uguali, ma ogni sera è diversa
e quasi non ti accorgi dell'energia dispersa
a ricercare i visi che ti han dimenticato,
vestendo abiti lisi buoni ad ogni evenienza,
inseguendo la scienza
o il peccato.
Tutto questo lo sai e sai dove comincia
la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia;
perché siam tutti uguali, siamo cattivi e buoni,
e abbiam gli stessi mali, siamo vigliacchi e fieri,
saggi, falsi, sinceri,
coglioni.
Ma dove te ne andrai, ma dove sei già andata?
ti dono, se vorrai, questa noia già usata,
tienila in mia memoria ma non è un capitale,
ti accorgerai da sola, nemmeno dopo tanto,
che la noia di un altro
non vale.
D'altra parte lo vedi, scrivo ancora canzoni,
e pago la mia casa, pago le mie illusioni,
fingo d'aver capito che vivere è incontrarsi,
aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare,
bere, leggere, amare,
grattarsi.
Francesco Guccini

mercoledì, settembre 27, 2006

Siamo soli

Immagine pubblicata su gentile concessione (non ancora richiesta) di ObbyCosì canta Vasco. E non a torto.
Diciamocelo chiaramente: alla fine dei conti siamo soli e non sprofonderemo nel pessimismo cosmico ad ammetterlo.
Quasi (il quasi è d'obbligo) tutti abbiamo intorno tante persone: genitori, marito o moglie, figli, parenti vari, amici irl (ndr: in real life) e amici in rete. Queste persone partecipano alla maggior parte della nostra vita. Con loro condividiamo gioie e dolori, ci inumidiamo le spalle a vicenda, ci sentiamo al telefono, beviamo qualcosa al bar. Con alcuni (alcune, nel mio caso, e non contemporaneamente, ahimé) di loro facciamo persino l'amore, uno dei gesti di condivisione più intimi in assoluto.
Ma queste persone conoscono tutto del nostro vero essere? Dopo che abbiamo pianto sulle loro spalle, quando tornano alla loro vita, con chi rimaniamo se non con noi stessi?
E non pensate che questa sia una cosa meravigliosa?
Si, perché dopotutto lo stare in solitudine non è altro che vivere un momento di intimità profonda, la più profonda immaginabile, quella che non concederemmo (si, "concederemmo" e non "concederemo", perché nel futuro chissà mai che non cambi idea) mai a nessuno.
In questi momenti scatta l'autocritica, il punto della situazione, anche la dietrologia (che la politica ci dice essere cosa cattiva). Scattano persino i "cosa - se", stimolando i pigri neuroni a creare nuove e ardite connessioni sinaptiche che mai avremmo sperato di ottenere. E un cervello umanisticamente attivo, si sa, facilita la socializzazione.
Visto? Alla fine di questo fiume incontrollato di pensieri sono giunto ad una conclusione rivoluzionaria: accettare e vivere la solitudine aiuta la vita sociale. Una patologia che si cura da sé semplicemente accettandone l'esistenza e coltivandola!
Incredibile. Vincerò un Nobel? Sicuramente nemmeno una copia contraffatta del Mongolino d'Oro.
E' bello sapere di poter godere della compagnia di chiunque abbia voglia di starci accanto. Lo è altrettanto essere consapevoli che la solitudine è lo stato fondamentale della nostra vita.
E goderne...

giovedì, settembre 21, 2006

Ultimo viaggio

Ho fatto un viaggio. L'ultimo, in un certo senso.
Ho volato sul mare ma non l'ho visto, perché il temporale me lo ha impedito. Non mi ha però impedito di godere una splendida alba sopra le nubi.
Ho osservato altri viaggatori, nell'immensa stazione, affannarsi a trovare una direzione, mentre aspettavo di prendere la mia.
Ho sceso le scalette del treno senza sentirmi a destinazione. Ho cercato i visi noti tra le facce anonime che attendevano sul marciapiede. Solo dopo l'abbraccio di chi mi attendeva ho provato quella meravigliosa sensazione di essere arrivato, di essere a casa.
Ho ripercorso le strade che vidi per la prima volta oltre due anni fa e mi sono nuovamente estasiato nel godere delle imperfezioni dei muri, degli effetti del tempo su di essi, dei balconi che non cadono a pezzi solo per l'ingenua volontà di chi ci tiene il suo piccolo giardino: qualche fiore rosso, una piantina di basilico, quel tulipano che non vuol saperne di sbocciare.
Ho visto colori che non rivedrò più. Ho cercato di catturarli in tante istantanee digitali, ma le nuvole e la modestia dei mezzi non hanno reso che un'infinitesima parte di quanto i miei occhi hanno ammirato.
Ho sentito i profumi esaltati dalla pioggia insistente: quello del muschio sui muri in pietra larghi quanto un corridoio, quello dell'aria fresca della sera che filtra dalle enormi persiane, quello delle candele e delle essenze che riempiono l'unica stanza che funge da soggiorno, da cucina, da camera da letto e da studio.
Ho goduto dell'abbraccio sincero della mia ospite, un abbraccio che ha bisogno solo di se stesso per darsi un senso, un abbraccio che racchiude tutto il bene del mondo. Mi ci sono cullato e ho sognato non finisse mai quello stato di quiete e serenità che infondeva in me il suo respiro sul mio petto.
Ho ascoltato il silenzio nella casa che mi ha ospitato per la quinta ed ultima volta. Ho inspirato a pieni polmoni prima di lasciarla. Ho percorso con lo sguardo tutte le pareti del piccolo monolocale per imprimerle nella mia mente; le ricordavo proprio così ed è così che le ricorderò ancora.
Perugia è proprio una bella città. Ma d'ora in avanti, per me, lo sarà un po' meno.

martedì, settembre 12, 2006

C'era una volta il West

Ecco in foto il famoso bandito Lazy the Gavettoner, pistolero famoso più per la sua classe che per la velocità della sua pistola. Egli era solito vincere con l'astuzia i rari duelli in cui veniva (suo malgrado) coinvolto.
Ha ucciso Billy the Kid cantandogli la sua ninna nanna preferita, quella che gli cantava sempre la vecchia madre, e facendolo addormentare in una pozza di abbeveraggio per i cavalli. Il povero Billy avrebbe probabilmente galleggiato per tutta la durata del pisolino se l'astutissimo Lazy non gli avesse legato al collo un'incudine da 25 chilogrammi.
Ha fatto sparire (eh si, perché nessuno ne ha trovato i resti) il famigerato Butch Cassidy. Si dice lo abbia sepolto vivo in una vecchia miniera, convincendolo ad entrare nell'oscuro cunicolo con il miraggio di un sacco di pepite d'oro per fargli poi esplodere alle spalle l'unico ingresso disponibile; casualmente, quell'unico ingresso costituiva anche l'unica via d'uscita.
Ha reso Calamity Jane una povera casalinga frustrata, facendole sfornare 7 gemelli (è stato il primo parto ettagemellare del West) e costringendola a preparare manicaretti da mane a sera. La lasciò con i pargoli promettendole di tornare appena lei avesse imparato a cucinare gli spaghetti alle arselle. Si dice la poveretta stia ancora cercando di capire cosa siano gli spaghetti; le arselle, invece, aveva ben pensato di sostituirle con le lingue di gatto.
L'ultima storia su Lazy the Gavettoner che gira per le lande desolate del selvaggio West risale al 3 Settembre scorso, quando si ritrovò invitato alla festa della tosatura dei bovini gemelli, presso il Ghiani's Corral. Sapeva bene che quell'invito nascondeva qualcosa di losco, ma il suo animo avventuriero ed impavido lo portò ad accettarlo senza un briciolo di paura.
Giunse sul luogo nel primo pomeriggio, con un sole caldo e accecante che dominava la prateria. Il cancello era chiuso e i feroci cani addestrati alla guardia corsero subito verso di lui digrignando i denti ed abbaiando violentemente. Senza battere ciglio, Lazy scese da cavallo lentamente, assicurò il suo destriero e si diresse dritto verso i cani, guardandoli dritti negli occhi con sguardo penetrante. Sarà stato il suo sguardo, sarà stata la sua spaventosa presenza fisica, uno dei cani invertì la marcia e, con la coda fra le gambe, corse via tra guaiti sconnessi e timidi latrati. Qualcuno dei presenti giurò di aver sentito uscire dalla bocca del cane anche dei miagolii, degli squittii alcuni gracidii e persino una canzone di Paola e Chiara, ma nessuno gli diede credito. Il secondo cane stava comunque avvicinandosi al nostro prode pistolero il quale, in tutta calma, estrasse la pistola, la puntò alla testa dell'animale sollevando il cane (quello della pistola, non l'animale) preparandosi a fare fuoco. Arrivato a un passo dal canide, con mossa rapida e possente, gli strinse la gola nella mano sinistra e gli puntò la pistola sul muso. Il cane capì e pensò (non lo disse solo a causa di una laringite che lo aveva colpito giorni prima): "Tu sei il mio padrone". Lazy, nella sua immensa magnanimità, lo lasciò vivere.
In quel momento, attirata dal latrare dei cani e dal sublime profumo della colonia del nostro pistolero, giunse una vecchia conoscenza: Calamity Pasty.
Lazy si voltò di scatto ed ebbe un sussulto nel vedere com'era cambiata. Aveva perso almeno 60 chili ed aveva finalmente dismesso gli abiti da matrona che portava quando gestiva un bordello a Guasillon City. A quei tempi, la "Piccola Pasty" (come la chiamavano abitualmente i distinti frequentatori del suo locale) aveva un debole per Lazyto (così lo chiamava lei) e quest'ultimo era sempre costretto a fuggire dalla finestra per evitare che il quintalico corpicino della Piccola finisse non troppo casualmente sopra di lui.
Gli ci volle un po' per riprendersi dalla sorpresa. Nel frattempo il canide rischiò di morire soffocato, perché la stretta di Lazy era possente come quella di una morsa fatta con il Pongo. La Piccola Pasty che aveva davanti agli occhi contrastava con l'immagine pingue che aveva nella mente. La donna vestiva come una moderna Daisy Duke (come facesse a conoscerla il Lazy, questo è tuttora un mistero), con dei pantaloni attillati, una camicia blu che le copriva a malapena il procace (Oddio no! Era dimagrita anche li!) seno e degli stivali con degli altissimi tacchi a spillo; dopo il suo passaggio ci si potevano seminare gli occhielli, visti i buchi che lasciava sul prato. Ma quello che più colpì il nostro fu la pistola che teneva ben stretta nella mano destra, maneggiandola con perizia e bravura che non erano certo associabili ad una vecchia matrona.
Non ebbero neppure il tempo di scambiarsi una parola quando sentirono degli ululati familiari: uno sparuto gruppo di indiani Cippirimochi correvano rapidamente verso di loro.
Ma l'astuzia del Lazy e la ritrovata agilità della Piccola Pasty permisero loro di non farsi sopraffare: il pistolone di Lazy finì subito puntato alla nuca dello sciamano del gruppo, tale Otacovva, che continuava ad agitare il manico di scopa che aveva in mano come se volesse richiamare la pioggia acida. I due guerrieri, dal canto loro, puntavano la punta delle loro frecce verso il viso imperscrutabile e cattivo del Lazy. Piccola Pasty non si sforzò troppo in questo frangente, aveva addirittura messo la pistola nella fondina, quasi fosse complice. Quasi....? D'Oh!
La situazione si capovolse in un attimo. Calamity Pasty si allontanò lentamente ridacchiando sotto i baffi ormai in ricrescita. Lazy la sentì urlare tra le risate frasi del tipo "Io sono dio", "Il mondo è mio", "Tanto muori gonfio". La situazione, quindi, divenne tragica.
Lo sciamano Otacovva continuava ad agitare la scopa in preda ad un delirio da trance prolungata (o da oppio tagliato male).
La sqaw Ancilapunche (che tradotto significa "Svegliata con Rutto") puntava il suo arco contro la nuca scoperta dell'impavido Lazy.
Il guerriero Unga-Munchi (trad: "Coscia di elefante indiano che vive vicino a Kualalumpur nonostante sia nato vicino a Bombai da madre africana e padre ignoto") prendeva di mira l'orecchio destro del coraggioso cowboy.
L'azione di Lazy fu rapida; puntò il pistolone dritto verso il basso ventre di Unga-Munchi e gli disse queste parole: "Quando un uomo con la pistola incontra un indiano Cippirimochi (trad: "con l'arco dalle frecce spuntate e con una mira pari a quella di un pipistrello orbo a mezzogiorno"), l'indiano Cippirimochi è un indiano morto. Se non ve ne andate faccio rotolare le tue tre palle (gli indiani Cippirimochi sono famosi per averne 3) spelacchiate per tutta la prateria!". Sentendo il tono deciso del pistolero e avendo inspiegabilmente compreso le sue parole, il gruppetto di indiani abbassò gli archi e ripose le frecce. Solo lo sciamano continuò la sua danza ancora per qualche momento, fino a quando Ancilapunche non si prodigò in uno di quei rutti che le valsero il nome, svegliando Otacovva dalla sua oppiacea trance.
Lazy non perse tempo. Corse verso il suo cavallo, vi montò di corsa e galoppò veloce, seguendo una nuvoletta di polvere in lontananza: Calamity Pasty che cavalcava via.
La raggiunse e la sfidò a duello. Lei non poté rifiutarsi. L'epilogo è scontato. Vi dico solo che a Lazy bastò un unico colpo. Dopo averla stesa si avvicinò a lei. Respirava ancora. Sembrava voler dire qualcosa. Sicuramente l'amore della pingue Piccola Pasty non era scivolato via assieme ai chili perduti; si, con l'ultimo respiro, la ora affascinante Calamity Pasty voleva dichiarare il suo amore eterno.
Lazy avvicinò il suo orecchio alle labbra di lei e...
"Brutta merda..." furono le parole pronunciate tra rantoli soffocati. E spirò. "Beh" pensò Lazy "sempre meglio che morire gonfi!". Diede istruzioni per la sepoltura, che pagò profumatamente (che cavaliere!).
Ora, tutto quello che Lazy the Gavettoner desiderava era tornare a casa dalla sua adorata Calamity Jane, sperando che finalmente gli cucinasse qualcosa di commestibile invece dei soliti hamburgher bruciati, sperando che i 7 marmocchi ora fossero abbastanza grandi per smettere di pisciacchiare e scagazzare sulla sua pelle di bisonte preferita, sperando che a Calamity fosse passato quel famoso mal di testa che l'aveva assalita alla nascita dei magnifici 7.
Ma tutte queste speranze potevano aspettare. Non si sarebbe certo messo in viaggio prima di gustarsi il meritato riposo sull'amaca rubata dal ronzino di Calamity Pasty. Mentre riposava beatamente, nel pieno del dormiveglia, gli sembrò di sentire una vocina nella sua mente che continuava a ripetere "Brutta merda! Brutta merda! Brutta merda! Brutta merda....."

lunedì, settembre 11, 2006

Amici miei

Quanti amici avete?
E' una domanda ricorrente, ma profondamente egoista e, se vogliamo, completamente sbagliata. Ci si preoccupa tanto di avere degli amici che non ci si occupa affatto di essere un Amico.
Eh si, perché un Amico non si aspetta nulla dall'altro, ma fa di tutto per lui, senza bisogno che gli venga chiesto. E se gli viene chiesto fa il doppio, perché l'Amico che chiede è un Amico disperato.
Amicizia è impegno gravoso quanto appagante; essere un Amico è dare se stessi, avere degli amici è prendere per se stessi.

domenica, settembre 10, 2006

Balla coi lupi

Ieri sera ero un po' stanchino (come disse Forrest Gump al termine della sua "corsetta") e me ne sono rimasto a casa. Ero assonnato, ma avendo pisolato di tanto in tanto durante la giornata, non lo ero abbastanza da mettermi a dormire troppo presto. Effettivamente avevo in corpo anche una buona dose di malinconia che mi ha fatto prendere la (non troppo difficile) decisione di violentarmi. Così mi sono rivisto Balla coi lupi.
Quando guardo un film solo soletto, nell'intimità protetta del mio piccolo soggiorno, mi immergo totalmente nella visione, incurante di tutto e tutti; mi faccio avvolgere e riempire dalle sensazioni di immagini e suoni, coinvolgendo (non so come) non solo vista e udito ma tutti e cinque i sensi. Mi succede la medesima cosa con la lettura di un libro, ma le sensazioni in questo caso sono diluite nel tempo quindi, in qualche modo, vengono stemperate, attutite, dilazionate, come fossero il pagamento rateale di un'emozione enorme.
Balla coi lupi è un film che dura la bellezza di 3 ore e 40 minuti (precisi precisi, ho controllato) ed è un crescere continuo di intensità narrativa ed emozionale. Parla di guerra, di onore, di amicizia, d'amore e di follia. Parla di popoli che si incontrano e si scontrano, si conoscono e si odiano, si cercano e si uccidono. Ma tra la generalità dei popoli vince l'unicità dei singoli. Ed è così che il tenente John J. Dunbar entra a far parte della tribù dei Sioux, conquistandoli con la sua onestà, la sua lealtà ma soprattutto con la sua violenta curiosità di conoscere il popolo pellerossa.
Ed è così che mi sono ritrovato a sfogare le sensazioni in eccesso, quelle che il mio corpo non riusciva a reggere, in un versamento di liquido trasparente dalle ghiandole lacrimali principali ed accessorie di cui il mio corpo è provvisto.
E' accaduto quando Sisko (o forse si scrive Cisco, chissà) era a terra, con Shumani tatanka oh wha chi ("Balla coi lupi" in linguaggio Lakota, anche se non sono affatto certo di averlo scritto correttamente) chino su di lui che cercava di rassicurarlo.
E' accaduto anche quando Due calzini rimaneva fermo nonostante gli sparassero addosso, perché vedeva il suo amico legato sul carro.
Ed è accaduto ancora quando Vento nei capelli ha urlato al cielo e alla terra la sua amicizia nei confronti di Balla coi lupi, mentre quest'ultimo lasciava l'accampamento per amore della (ormai) sua tribù.
A inizio film l'accumulo di emozioni non era ancora sufficiente a scatenare la fuoriuscita di liquidi, ma la cavalcata del tenente John Dunbar a pochi metri dalla linea sudista è incredibilmente epica ed allo stesso tempo romantica da far veramente accapponare la pelle.
Ed alla fine, sui titoli di coda, dopo essermi passato le mani sul viso per cancellare le prove, stavo bene.
Mi sono alzato dalla poltrona rossa, ho scelto una delle tante porte che danno sul corridoio e, dopo averne superato la soglia, l'ho richiusa alle mie spalle.

giovedì, settembre 07, 2006

"Amor, ch’a nullo amato amar perdona, ...

... mi prese del costui piacer sì forte che, come vedi, ancor non m’abbandona."
Così scrive il Sommo Poeta nella terzina 103, quinto canto, prima cantica.
Ier sera mi trovavo (come troppo spesso accade) in libreria, con I Fantastici Quattro al completo:
la donna invisibile (in effetti non è lei ad essere invisibile ma lo diventa il resto del mondo, quando si toglie gli occhiali), l'uomo torcia (che è una donna, ma quando si accende in una discussione in cui non è affatto d'accordo con la vostra opinione brucia allo stesso modo), la cosa (che ve lo dico a fare?) e l'uomo allungabile (io, ovviamente. L'uomo allungabile, il sogno segreto di ogni femmina bramosa di sesso estremo. Purtroppo la mia mutazione genetica non è stata proprio perfetta e al momento mi si allunga solo il naso. Sogno tramontato).
Mi ero ripromesso di non comprare altri libri (ne ho una ventina in attesa di lettura e qualche altro in arrivo) ma alla fine non ho resistito alla tentazione di uscire con qualcosa in mano (non fate i maliziosi, tanto lo so a cos'avete pensato!). Ho preso un fumetto giapponese (leggermente osé, ma non l'ho preso per quello) e un libro di aforismi. Non ne ho mai avuto uno ma sfogliandolo e leggendone qualcuno mi è venuto da sorridere su quanto certe mie idee siano in voga da diversi secoli e quanto siano stati bravi gli autori a riassumerle in un pensiero di pochissime parole.
Come come? Non sapete cos'è un aforisma? Vabeh, oggi mi sento buono. Cito testualmente dallo Zingarelli: "Breve massima che esprime una norma di vita o una sentenza filosofica".
Nel libro che ho preso, gli aforismi sono divisi per categorie. Visto il titolo del post (giusto per restare in tema) mi diletto a snocciolarne qualcuno sull'Amore.

Non sono affatto contrario al baciamano alle signore. Bisogna pur cominciare da qualche parte.

Il signor S. Guitry ne sa una più del diavolo (ammesso e non concesso che il diavolo esista e ne sappia qualcuna). Perché negare l'esigenza del contatto fisico con l'altro sesso? A prescindere dall'ironia presente in questo aforisma, è innegabile la necessità dell'uomo (e della donna) di dare e ricevere dimostrazioni d'affetto, di ricercare nel corpo dell'altro/a quel calore più o meno effimero che trasmette quasi inconsapevolmente. Guardare un bel film disteso sul divano con una donna tra le braccia, sia essa amante o semplicemente amica, non è peccato; il vero peccato è non farlo.

Se uno ti porta via la moglie, non c'è peggior vendetta che lasciargliela.
Ancora una volta, il signor Guitry supera il buon vecchio satanasso. Lo ammetto, questo aforisma va un po' fuori tema. Parla di matrimonio e non d'Amore e, come ben sappiamo tutti, le due cose non sempre
vanno di pari passo. Il luogo comune della moglie rompiscatole che si regalerebbe volentieri è oramai talmente radicato che probabilmente la stragrande maggioranza degli uomini sposati si dirà totalmente daccordo con questa massima. Ma si sa, tra il dire e il fare c'è di mezzo il ma...trimonio.

Che una donna conceda i suoi favori o che li neghi, le fa sempre piacere che glieli si chieda.
Ovidio, a quanto sembra, era un profondo conoscitore dell'animo femminile. Il gusto di essere corteggiate, desiderate, a volte anche chiacchierate è talmente radicato nelle donne che, con buona probabilità, hanno un gene apposito che lo regola. Purtroppo per le donne, l'arte del corteggiamento ha cominciato il suo declino con l'avvento del femminismo e dell'emancipazione femminile; l'uomo ha anch'esso scoperto questo gusto, facendolo proprio e "dimenticando" le gioie del corteggiamento verso una donna e, perché no, la forte e malinconica emozione di ricevere un due di picche. Oggi non si vuole più rischiare (non mi escludo dalla massa, mea culpa) senza neppure conoscerne bene il motivo.

Io ho preso una decisione: cedere alle donne subito. Dal momento che finisce sempre così, economizzo le spese di guerra.
A. Karr doveva essere un bravo finanziere, forse un imprenditore di grosso calibro o un armatore. Ha compreso subito quale fosse l'uscita più pesante sul budget alla voce "rapporto con l'altro sesso": le discussioni con le donne. Generalmente, partono da futili motivi per degenerare in accuse e recriminazioni da far invidia all'alterco amoroso di questi giorni tra George W. Bush e Mahmud Ahmadinejad. Se si è fortunati, tutto nasce dal bisogno di ravvivare la giornata e per la voglia di "far pace" (quant'è bello, mamma mia).


L'uomo è di fuoco, la donna di stoppa, il diavolo arriva e soffia.
M. de Cervantes, in questa sua massima, ammette l'esistenza del diavolo (per la gioia della donna invisibile). In effetti però non so quanto la donna moderna sia felice di essere definita "stoppa".

Piccolo avviso: da questo punto in poi ho scritto con una pizza e tre bicchieri di cannonau scadente in corpo.

L'amore non deve implorare e nemmeno pretendere. L'amore deve avere la forza di diventare certezza dentro di sé. Allora non è più trascinato, ma trascina.
H. Hesse. Quanto è raro che
questo accada? Devono verificarsi tanti eventi tutti insieme, nella sequenza precisa e carichi di una non trascurabile intensità. Per prima cosa, ci dev'essere un interesse reciproco; questo è un evento quasi inconscio, non abbiamo alcun controllo (benché qualcuno s'illuda del contrario) sul suo verificarsi. Secondo (ma non per questo meno importante) evento, è la volontà e capacità di mettersi in gioco, di aprirsi, di lasciarsi scoprire. Questo evento è invece legato alla razionalità, alla coscienza, alla propria riflessione. Ed è proprio questo che, solitamente, non si riesce a fare.

"Vostra moglie è una rosa", dicevano ad un poeta cieco. "Lo immaginavo dalle spine", rispondeva lui.
A. Karr sta diventando il mio mito. In questo caso, in una frase apparentemente ironica e banale, ha racchiuso un significato ben più profondo. Una rosa avrebbe lo stesso fascino senza le sue spine? Certo che no. Come godere dei picchi di felicità senza prima raggiungere strapiombi di sconforto? Ben venga la donna combattiva, che tiene testa, che sa il fatto suo, ma che sia anche sincera e ami senza remore.

Gli uomini vorrebbero essere il primo amore di una donna. Questa è la loro sciocca vanità. Le donne hanno un istinto più sottile per le cose: a loro piace essere l'ultimo amore di un uomo.
Dal punto di vista di O. Wilde credo sarei una donna, ma oramai il mondo è talmente confuso che dire uomo o donna è come dire cioccolato nero o bianco (lo confesso, sono al quarto bicchiere). Se fosse veramente come dice il vecchio Oscar, le donne dimostrerebbero un'intelligenza nettamente superiore a quella dell'uomo. Personalmente credo nella profonda diversità tra i sessi, senza per questo volerne elevare nessuno. Ed è per questo che amo le donne; perché sono diverse da me.

E' così dolce essere amati che ci accontentiamo anche dell'apparenza.
E. D'Houdetot, ma che tristezza. Che ci frega dell'apparenza se non ne sentiamo la sostanza? Forse intendeva dire la speranza, perlomeno lo spero (che bel gioco di parole. Farò finta di averlo scelto di proposito. Poi ovviamente mi ricorderò di cancellare questa nota prima di pubblicare l'articolo), altrimenti licenzierei il redattore che ha scelto questa massima e la categoria in cui inserirla.

Calma non può esserci nell'amore, perché quel che si è ottenuto è sempre solo un nuovo punto di partenza per desiderare di più.
Confermo, sottoscrivo e m'inchino di fronte a sì tanta verità. M. Proust conosceva bene il desiderio infinito dell'uomo di elevarsi sempre più in alto, di raggiungere obiettivi sempre più complessi, di desiderare sempre qualcosa di più di quanto si ha. E' questo che ha spinto il progresso, la sete di conoscenza e la curiosità dell'uomo: il non accontentarsi mai. Ma come si può pensare allora che un rapporto d'amore con la stessa donna duri per tutta la vita? Perché non è in un altra donna che si può ottenere di più, ma alla donna che si ama e si stima si può chiedere di meglio, facendo crescere il rapporto, inventando nuovi modi di viverlo e crescendo insieme, così da creare in due i punti di partenza e di arrivo dei desideri di entrambi.

L'amore nasce di nulla e muore di tutto.
Come Tafazzi nel suo gesto istrionico che riassumeva l'essenza univoca della comicità, A. Karr ha racchiuso in nove parole l'essenza dell'Amore. La nascita di un Amore è indescrivibile, irrazionalizzabile e inspiegabile. La sua morte può avere invece miriadi di validi motivi, cause, colpe, responsabilità, la risoluzione di nessuno dei quali può provocare la rinascita dell'Amore perito. Per questo l'Amore va vissuto appieno quando l'abbiamo, perché quando non l'abbiamo ci mancherà. Da morirne.

Amare è trovare la propria anima attraverso l'anima dell'amato. Quando l'amato si ritrae dalla tua anima allora la tua anima è perduta.
Nessun commento. Solo un inchino a
E. Lee Masters.

PS: so che la foto non c'azzecca molto con l'Amore, ma voglio ridurre al minimo la pubblicazione di foto trovate in giro per la rete ed invece utilizzare quelle di cui dispongo sul mio macinino. Se l'amore di Alessia per il mio scalpo non vi sembra abbastanza, beh... arrangiatevi.

lunedì, settembre 04, 2006

Malinconia puttana

Prendi una sera a cena con gli amici. Cerchi di concentrati su ciò che vedi e senti, ma tu non ci sei. La tua presenza fisica è certa, ma i tuoi pensieri sono altrove. Vagano in cerchio, spesso intorno al nocciolo del problema che ti affligge, senza riuscire a coglierlo e affrontarlo. Non sei triste e non sei felice. Non sei sereno ma neppure sei inquieto. In una parola: sei malinconico.
Ma cos'è la malinconia? Non è sicuramente una malattia da combattere. Tanti la temono più della lebbra, molti le sfuggono correndo come dannati, alcuni la affrontano, pochi la "vivono". Personalmente ritengo sia un'arma a mia disposizione piuttosto che uno stato d'animo da combattere. Si, perché credo fermamente che la malinconia sia la mia arma contro la tristezza e lo sconforto, ma soprattutto contro l'inquietudine e l'oscurità.
La malinconia è una zona d'ombra, un limbo, un corridoio sempre aperto tra l'oscurità e la serenità; ci si può passare in qualunque momento e quando ci sei dentro puoi andare dove ti pare, perché è un corridoio con molte porte e tutte queste porte sono socchiuse. A volte arriva qualcosa o qualcuno che ne spalanca qualcuna e ne chiude qualcun'altra, ma mai con la chiave; è sufficiente girare la maniglia per riaprirla.
Come si può temere un corridoio? I corridoi ci regalano la possibilità di scegliere la stanza in cui entrare; ci danno anche la possibilità di guardare dal buco della serratura se vogliamo, oppure dallo spiraglio lasciato dalla porta socchiusa. Abbiamo tutto il tempo di decidere dove andare, quando stiamo nel corridoio.
Si può fuggire da un corridoio? Certo, basta muovere le gambe, metterle una davanti all'altra in rapida successione e scegliere una direzione. Ma quando si corre si ha poco tempo per decidere e la soglia che si supera potrebbe non essere quella giusta o, semplicemente, potrebbe non essere la migliore.
E affrontarlo? Accidenti, come si può affrontare un corridoio? Ma soprattutto come lo si può vincere? Certo, ci si potrebbe munire di un grosso martello e abbattere tutte le pareti del corridoio, così vedremmo cosa offre ogni stanza. Ma non ci sarebbero più le porte, quindi non avremmo fatto altro che creare un corridoio più grande. In un luogo grande, si sa, è molto più facile perdersi.
Perché allora non fermarsi un po' in questo corridio? C'è un bel distributore di bibite sulla destra che offre tutto quello che desideriamo e c'è perfino una macchina del ghiaccio per rinfrescarle in caso di necessità. Al centro c'è una grande poltrona in pelle rossa, non proprio nuovissima, e appeso al muro di fronte si può ammirare un poster che raffigura una spiaggia tropicale; ci sono le palme, la sabbia bianchissima, l'acqua di un celeste accecante e qualche uccello che svolazza beato. Ogni tanto passa qualcuno nel corridoio. Se non è uno dei "corridori", si riesce a scambiare addirittura qualche parola. Se si è davvero fortunati, ti chiede di fargli un po' di spazio sulla poltrona e si siede con te a godere l'immagine offerta dal vecchio poster, ad assaporare l'aria del corridoio, a trasmetterti le sue impressioni e ad assorbire le tue. Ad un certo punto uno dei due si alzerà e sceglierà una porta, quella giusta per quel momento, sicuramente. A volte capita che ci si alzi contemporaneamente e si superi insieme la stessa soglia; è indescrivibile quanto sia meraviglioso e appagante. Ma questo è un evento raro quanto una goccia d'acqua dolce in un oceano.
La malinconia può darti tutto quello che vuoi e prenderti tutto ciò che hai.
Proprio come una puttana.

giovedì, agosto 31, 2006

Lotta di classe

Stanotte, mentre mi rigiravo nel letto cercando la posizione migliore per liberarmi dal gas intestinale in eccesso (o forse cercavo una buona posizione per dormire, chissà), mi è tornato alla mente un episodio accaduto quando avevo circa 15 anni (uno o due secoli fa, quindi).
Assieme a due amici mi trovavo in un locale del mio paese che allora si chiamava Gorky, se la memoria non mi inganna. Stavamo seduti su una panchina, nel giardino del suddetto locale, e nella panchina vicino alla nostra sedevano tre giovani pulzelle che parlavano tra loro e ogni tanto buttavano un occhio nella nostra direzione (come peraltro facevamo noi verso di loro). A questo punto, uno dei miei due amici attacca bottone (a quei tempi ero piuttosto timido) e comincia a far domande. Non ricordo in che modo, ma il discorso è caduto su ciò che loro pensavano di noi. Mi rimase impresso il fatto che riuscirono a rispondere con un'espressione tanto ridotta quanto significativa, almeno per loro: ci definirono "quelli che studiano".
Ero stato classificato, etichettato, giudicato perché ogni giorno mi svegliavo la mattina alle 6, prendevo un treno e rientravo a casa alle 15 del pomeriggio, per poi passare una (piccola) parte della serata sui libri.
La definizione, nonostante le apparenze, era tutt'altro che lusinghiera, perché sottintendeva tutta una serie di sotto-definizioni più specifiche e meno interpretabili: "puzza sotto al naso", "saccenti", "narcisisti" e via discorrendo.
Allora la cosa mi fece sorridere e, da buon narciso quale venivo definito, pensai a quanto fossero stupide e superficiali. Con il senno di poi però ho capito che, in parte, facevo lo stesso. Ricordo che anche per me loro erano "quelli che non studiano", e sebbene non lo vedessi come un fatto negativo in se, li classificavo comunque, escludendoli in qualche modo dalla cerchia di cui ero invece parte integrante.
Allora, nella mia quasi totale ignoranza e immaturità, non mi resi conto di quanto fosse pericoloso questo modo di pensare: classificare, etichettare.
Oggi siamo tutti classificati. Ebrei, cristiani, musulmani, americani, palestinesi, italiani, cinesi, neri, zingari, commercialisti, omosessuali (si, li ho messi vicini di proposito), eccetera. Tutti subiamo l'onta o l'onore di ricevere una o più etichette. Se l'etichetta è riconosciuta come buona dalla morale comune, allora stiamo a posto.
Dopo che abbiamo un'etichetta addosso è difficile scrollarsela di dosso.
Un cinese? Tutti uguali. Occhi a mandorla e abiti contraffatti.
Uno zingaro? Zozzo e ladro.
Un musulmano? Terrorista.
Ci hanno provato anche i tedeschi ad ettichettarci, prima della sfida mondiale. Ci hanno dato dei pizzettari e si sono trovati due belle pizze calde nella loro porta.
Ma gli uomini (e le donne) dove li mettiamo? Le persone con le loro idee? Non voglio credere che tutti i musulmani siano dei Bin Laden, come non credo che tutti gli italiani siano dei Totò Riina.
La classificazione è la base dell'odio. L'odio personale è raro, l'odio verso un gruppo di persone nettamente identificato è invece consuetudine omertosamente accettata.
Un esempio semplice e banale? Basta guardare gli stadi di calcio. In quel caso la classificazione è portata, da alcuni, fino all'eccesso della violenza.
Se il classificare porta a conseguenze così tragiche in un campo di calcio, come possiamo stupirci dei risultati che questo nostro modo di pensare porta nel mondo reale?

mercoledì, agosto 30, 2006

Siamo fuori dal tunnel

Mai appisolarsi dopo aver mangiato pesante, può nascerne solo un incubo.
Mi ritrovo in macchina con un amico, mentre andiamo a raggiungere due amiche che ci aspettano in non so quale locale di Cagliari. Una di queste due mi piace, ma non riesco mai ad avere con lei un incontro ravvicinato, per cui sono tutto eccitato per l'opportunità della serata.
Arriviamo al locale, una sorta di palestra delle dimensioni di un campo di calcio con dentro poco meno di un milione di persone e altrettanti tavolini.
Con incredibile facilità troviamo il tavolino delle nostre amiche, le quali si sono (vi ho già detto che era un incubo, vero?) già date da fare; al loro tavolo infatti ci sono già seduti dei bei maschioni.
Ma mentre ci avviciniamo, il tavolino diventa un tavolo da pranzo rettangolare, a un capo del quale ci sono le nostre due amiche con i nuovi amici e al capo opposto sediamo noi.
Improvvisamente anche noi ci troviamo circondati da ragazze e ragazzi sconosciuti (ma con volti oniricamente familiari), con i quali cominciamo a parlare con immensa naturalezza, come se ci conoscessimo da anni (certo, dove altro può capitare se non in un incubo?).
A un certo punto, questi ragazzi ci invitano ad andare con loro chissà dove. Al che mi avvicino all'amica che mi piace e le chiedo se le va di venire con noi. Lei declina l'invito, dicendo che i ragazzi che stanno con loro sono automuniti e possono tranquillamente accompagnarle (le sue parole esatte sono state: "LUI ha 19 anni, può guidare". Si, ma pelo pelo, pedofila.). Stronza (è il mio incubo, posso insultarla quanto mi pare)!
Il mio amico ed io ci avviamo verso la macchina, che ho parcheggiato vicino a dei cassonetti della spazzatura. Casualmente, metà del milione di persone che si sollazzava nell'immenso locale sta andando dove andiamo noi (ci sarà un rave in un campo di pallanuoto?). Allora mi affretto, per evitare la coda di automobili che sicuramente si formerà. Arrivo alla macchina e non c'è nessuno nei paraggi, ma un piccolo cassonetto blocca l'uscita. Però che fortuna, ha le ruote ed è leggero, lo spingo da parte. Mentre torno verso la mia auto, arriva un cassonetto della spazzatura guidato (si, guidato, non spinto) da un uomo abbastanza incavolato; pare che gli abbia fregato il parcheggio! Sistema il suo cassonetto Ford (o forse era un Volkswagen?) davanti a quello che avevo appena spostato e si allontana sbraitando.
Finalmente in macchina, ma devo sbrigarmi: il fiume di gente sta arrivando. Infilo la chiave di accensione e la giro. Niente. L'auto non vuol saperne di partire. Guardo sconsolato il mio amico che se la ride seduto di fianco a me.
Sono in discesa, decido di provare il tutto per tutto. Tolgo il freno a mano e lascio scivolare all'indietro la macchina. Con una manovra degna dei migliori Starsky ed Hutch riesco a raddrizzare la mia Focus, mettendola muso a favore della discesa e provando ad accenderla sfruttando la forza di gravità (fortuna che si trova anche negli incubi).
Niente.
Silenzio assoluto.
A un certo punto mi rendo conto di non vedere dove sto andando. Invece di avere davanti a me il parabrezza, vedo la parte laterale della macchina, con il montante da cui parte la mia cintura di sicurezza proprio davanti al naso.
"Cacchio" mi dico, "questa macchina è proprio storta. Che mi abbiano tamponato e non me ne sia accorto?"
Certo, se non fossi stato immerso in un incubo mi sarei subito reso conto (grazie alla mia immensa intelligenza) che sarebbe servito un treno merci con 50 vagoni carico di piombini da pesca lanciato a 200 kilometri l'ora per storpiare un'auto a quel modo, ma in quel momento mi è sembrata la naturale conseguenza di un leggero tamponamento in parcheggio.
Cerco di fermare l'auto a bordo strada ma è difficile, molto difficile; ho il timore di sbattere da qualche parte perché non riesco a togliermi da davanti la cintura di sicurezza. Il bello è che da qualunque parte giri la testa ho sempre la cintura di sicurezza davanti agli occhi (non sono certo di avervelo già detto, ma si tratta di un incubo).
Decido di frenare senza prestare troppa attenzione; l'operazione riesce senza danni apparenti.
Scendo dalla macchina, vado sul davanti per verificare i danni e la guardo con attenzione. A parte il fatto che più che una Ford Focus sembrava una Fiat Punto taroccata (ovvio direte voi, era un incubo!), la macchina sembrava dritta. La frustrazione cominciava a montare in me (nell'incubo ovviamente, nel mio corpo sul divano era già montata a causa della stronza).
Nel frattempo, il mezzo milione di persone che emigrava dallo stadio coperto alla nuova meta mondana passava vicino a noi; tutti a piedi. "Normale" avrei detto da sveglio "il treno di piombini da pesca deve aver preso anche le loro automobili."; però sembravano molto più sereni di me.
Mi sposto sulla parte posteriore dell'auto e anche li sembra tutto a posto. Faccio per tornare davanti ma con la coda dell'occhio vedo qualcosa di strano. Sull'angolo posteriore destro dell'auto c'è un piccolo graffio. Mi avvicino per controllarlo meglio e il graffio diventa un grosso bozzo. Disperato, volgo il mio sguardo verso la ruota posteriore sinistra che risulta completamente sgonfia e deformata (la soluzione, se fossi stato sveglio e non in un incubo, sarebbe stata ovvia: avevo lo sguardo di Ciclope degli X-Men e qualunque cosa guardassi veniva distrutta. In quel momento non mi sarebbe dispiaciuto intravedere la stronza di cui sopra in mezzo alla fiumara di gente).
"Ma porca troia" ho pensato sia nell'incubo che nel dormiveglia "mi hanno tamponato e bucato una gomma". Che uomo perspicace sono quando sogno.
Guardando meglio la ruota posteriore sinistra mi accorgo che è molto storta (ecco spiegato il fatto della cintura sempre davanti agli occhi). Ma guardando meglio non solo è storta, piuttosto NON è la ruota della mia macchina!
E' una ruota di Vespa 50 Special, completa di tutto il retrotreno, corpo motore e leva di accensione compresi! A questo punto la mia frustrazione diventa furia purissima. Strappo tutto il retroreno della Vespa (che, ricordo, stava attaccato alla mia Ford Focus) e lo scaravento sul marciapiede. Mi accorgo solo in quel momento che sto su un ponte, con un enorme fiume che scorre sotto di me.
E mi sveglio, leggermente sudato, con il cuore a mille.
Mai appisolarsi dopo aver mangiato pesante.