sabato, febbraio 13, 2010

Trasferito

Mi sposto.
Se mai ritroverò la voglia e la serenità di scrivere nuovamente, lo farò nella mia nuova casa.

http://lamiafinestrasulmondo.scribam.it


A presto, spero.

mercoledì, dicembre 19, 2007

Loredana


Un foulard serve solo a ripararsi dal vento.

"Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella

sola senza il ricordo di un dolore
vivevi senza il sogno di un amore
ma un re senza corona e senza scorta
bussò tre volte un giorno alla sua porta

bianco come la luna il suo cappello
come l'amore rosso il suo mantello
tu lo seguisti senza una ragione
come un ragazzo segue un aquilone

e c'era il sole e avevi gli occhi belli
lui ti baciò le labbra ed i capelli
c'era la luna e avevi gli occhi stanchi
lui pose la mano sui tuoi fianchi

furono baci furono sorrisi
poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle

dicono poi che mentre ritornavi
nel fiume chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent'anni ancora alla tua porta

questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno , come le rose

e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno come le rose.
"

Fabrizio De André

mercoledì, ottobre 31, 2007

La mia casa

La mia casa è un luogo sicuro. Io voglio credere che lo sia.
La mia casa non ha quattro mura, ne ha di più. Se volessi potrei contarle, le mura.
Ma non potrei contare le porte. Quelle no. Assolutamente, no.
Ogni porta nasconde un giardino, con i fiori, le piante, la fontana e una panchina.
Seduta su quella panchina ci sei tu. Su tutte le panchine, di tutti i giardini dietro ogni porta, ci sei tu.
Sei diversa in ogni giardino. I tuoi colori, i tuoi profumi, le tue labbra, i tuoi occhi.
Eppure sei tu, sempre uguale a te stessa, ma insieme inesorabilmente diversa.
Su ogni panchina di ogni giardino siedi immota, con lo sguardo sul colore più acceso.
Rosso, verde, giallo blu. Non importa quale sia. Tu lo guardi, in silenzio.
Potrei sedermi al tuo fianco, guardare lo stesso colore che guardi tu, nello stesso modo in cui lo guardi tu, ma non ti accorgeresti di me.
In ogni giardino sei diversa e uguale insieme. Li percorro tutti, cercando il giardino con i colori meno accesi.
Mi manca il tempo. Fugge via. Troppi giardini. Troppi colori. Torno in casa.
La mia casa chiude fuori i problemi del mondo.
E custodisce i miei.

martedì, maggio 22, 2007

Il punto di non ritorno

In ogni cosa che facciamo c’è il rischio di superare il punto di non ritorno. Lo sanno bene i piloti aeronautici, che lo calcolano ad ogni decollo ed atterraggio; lo sanno i paracadutisti, che saltano giù con addosso un pezzo di tela come speranza di salvezza; lo sanno gli amanti che perdono la ragione durante l’amplesso.
Ma è quando si litiga che il punto di non ritorno diventa il fulcro dell’evento: si moltiplica, si contrae, si estende; quando si è convinti di averlo lasciato indietro eccolo comparire di nuovo davanti, pronto per essere superato ancora, finché si ha voce, arroganza, testa di cazzo. In alcuni casi il punto si può identificare con una parola, un oggetto, un frutto; magari una fragola, condita con troppo zucchero.
Alla fine si abbandona per stanchezza, lasciando il ring per l’accumularsi dei punti alle spalle e il moltiplicarsi di quelli davanti. Si rimane spiazzati, spossati, nervosi, arrabbiati, solitamente contro se stessi, per non essere riusciti a fermarsi prima.
E ciò che rimane sullo stomaco è solo una sconcertante amarezza, perché ci si rende conto che forse, dopotutto, sarebbe stato sufficiente mangiare quella fragola.

mercoledì, febbraio 14, 2007

Il dubbio

Pubblicato su La voce del padrone.

- E tu saresti la Dea Bendata?
- Perché, non le somiglio per caso?
- Come posso giudicare una somiglianza con qualcosa che non esiste?
- Sei un uomo molto scettico Stefano, ma il dubbio ti rode sempre, non è vero?
- Il dubbio alimenta la curiosità, la curiosità nutre la conoscenza, la conoscenza genera il dubbio. In che modo tu potresti influire su questo o altri cicli vitali?
- Eppure nel tuo ciclo vitale ho influito parecchio, non credi?
- E quando mai, di grazia?
- Non ricordi la volta in cui un camion senza freni ha giocato a bowling con una decina di automobili tra le quali avrebbe potuto esserci anche la tua?
- Fui io a scegliere la corsia, senza dubbio. Ma se ciò che dici fosse vero, come mai non mi aiutasti quando, per evitare un gatto, caddi dalla moto?
- Forse perché quella volta aiutai il gatto?
- Quindi prediligi gli animali?
- Chi non li predilige?
- E come mai non salvasti la mia bellissima gatta bianca, finita sotto la ruota di un imbecille?
- La famiglia di topi che salvai grazie a quell'intervento mi ricorda ancora nelle sue preghiere. Tutto è sotto il mio controllo, perché non vuoi arrenderti all'evidenza?
- Hai proprio ragione, sai cosa ti dico?
- No, cosa mi dici?
- Che hai sciolto ogni mio dubbio. Fottiti.
*PUFF*

mercoledì, gennaio 31, 2007

Quell'insostenibile leggerezza dell'eros

Pubblicato su La voce del padrone.

Buio.
Le lenzuola di seta porpora ci avvolgevano completamente. Non so perché avesse fatto quella scelta, ma il contatto di quel tessuto delicato sulla pelle mi regalava una sensazione quasi contraddittoria di freschezza e calore. Mi piaceva tanto quella sensazione, e mi piaceva sentire il profumo di lei. Eravamo sdraiati sul fianco destro, il mio petto a contatto con la sua schiena, le mie labbra che sfioravano la sua nuca. Avevo il naso fra i suoi capelli e m'inebriavo di lei. Entrambi compivamo dei leggeri movimenti, ognuno volto a trovare un contatto nuovo, diverso, più intenso ed intimo. Le mie mani la stringevano, accarezzandole i seni e la pancia, mentre le sue mani premevano sul dorso delle mie, assecondandone i movimenti. Sentivo il nostro desiderio crescere all'unisono, il calore dei nostri corpi aumentare lentamente, la carezze farsi sempre più audaci. Precedendomi di un solo attimo, fu lei a modificare la forma che avevamo assunto, voltando il suo viso verso il mio.
Buio.
Non potevo vederlo, ma immaginavo il suo sguardo su di me, i suoi occhi nei miei. Avvicinò le sue labbra alle mie e le sfiorò delicatamente. Le schiudemmo insieme ed il nostro bacio si fece appassionato e languido. Le nostre lingue si avvinghiarono alla ricerca di quell'intimità irraggiungibile quanto agognata, il cui inseguimento inebria corpo, mente ed anima. Sentivo i suoi seni premere contro il mio petto, le sue mani percorrermi la schiena, le sue gambe accarezzare le mie. Il sapore del suo bacio mi riempiva, saturando il mio corpo dell'intenso piacere dell'abbandono. L'abbandono incondizionato, il concedere ed il concedersi, la convinzione che nulla avrebbe potuto turbare quel momento di estrema condivisione.
Buio.
Le sue mani si insinuarono fra i nostri corpi, cercando la prova del mio desiderio. Mi guidò dentro di se con studiata lentezza e sentii il suo calore avvolgermi gradualmente ma completamente. Mi circondò con braccia e gambe stringendomi forte a se, invitandomi a penetrare fino in fondo al suo essere, fino a fonderci in una sola cosa. Entrai in un sublime stato di trance, nel quale i miei pensieri vagavano rapidi e incontrollati senza soluzione di continuità. Respiravamo entrambi affannosamente ed il crescere dei suoi gemiti accompagnava i miei movimenti. Lei mi assecondava, senza remore né pudore. Mi resi conto che la sua stretta aumentava costantemente di vigore mentre il mio cuore aumentava i battiti. Smisi di respirare, per un attimo ed un'eternità, la mia schiena era percorsa dalle sue unghie che mi graffiavano senza però farmi male, e mi accorsi che anche lei aveva fermato il suo respiro e, soprattutto, i suoi gemiti. Avevo gli occhi chiusi, le palpebre strette come a proteggerli da una luce intensa che non era nella stanza, ma proveniva da dentro il mio corpo, dalla mia mente, forse. Ripresi a respirare dopo un tempo che mi sembrò lunghissimo, accasciandomi su di lei. Le sue mani accarezzavano dolcemente la mia schiena ed il suo respiro tornava lentamente normale. Riaprii gli occhi mentre la luce abbacinante che mi aveva travolto poco prima si attenuava sempre più rapidamente, lasciandomi addosso una insostenibile leggerezza.
Buio.

lunedì, dicembre 11, 2006

La filastrocca di messer Binocoluto

Pubblicato su La voce del padrone.

Fu una sera di Dicembre, il Natale era alle porte,
che messer Binocoluto incontrò comar Sordina.
Egli avea scarponi grandi, delle braghe troppo corte,
un cappello da montagna e una maglia verdolina.
Ella invece, sì compita, sulla riva del ruscello,
si trovava indaffarata a lavar gli sporchi panni,
il sapone lei fregava su un vestito proprio bello,
rosso come il solleone, vecchio forse mille anni.
E messer Binocoluto, passeggiando allegramente,
si diresse verso riva per poterla salutare,
ma ahimé lo sfortunato, forse un po' distrattamente,
inciampò in un ramo secco; proprio lì doveva stare!
Rotolò sopra le foglie, fece quattro capriole,
quando infine si fermò, massaggiandosi il sedere,
esclamò con voce grossa: “Accidenti, quanto duole!
E per tutti i santi numi, io non posso più vedere!”
Nel cadere avea perduto il suo bene più prezioso,
con gli occhiali lui poteva sì vedere tutto il mondo,
ma ora senza era perduto, 'ché ad un palmo dal suo naso
non vedrebbe un elefante mentre compie un girotondo.
Il messere di gran lena, la sua voce usò a trombone,
per cercare l'attenzione della piccola comare.
Ma ahimé come sapete, se le orecchie non son buone,
mica serve ci si sgoli, tanto è inutile gridare.
Ed infatti la comare, non avendo un grande udito,
continuava allegramente fischiettando le canzoni
a fregare sul vestito il suo sapone profumato,
mentre il nostro buon messere camminava un po' a tentoni.
Ma fu proprio in quel momento che comparve zio Dittongo,
trasportando sul carretto della legna per il fuoco,
ed udendo il gran trambusto, si gettò di mezzo al fango,
per accorrere in soccorso del messere mezzo cieco.
Ma messer Binocoluto l'altro non vedea arrivare,
nonostante zio Dittongo si sbracciasse risoluto,
'ché neppure una parola lui riusciva a spiccicare,
che disgrazia poverino, lui era poco più che muto.
Ed infatti l'incidente, che pareva ormai concluso,
prese piega assai peggiore, causa brutta scivolata.
Fu lo zio che sopra il fango scivolò col suo bel muso
dirigendo sul messere una gran bella testata.
Ed entrambi i poveretti rotolaron nuovamente,
verso riva ahimé, che mira, travolgendo la comare,
“Cade il monte! Cade il monte!” urlò disperatamente
finché non si ritrovaron dentro l'acqua ad annaspare.
Per fortuna che il messere era un bravo nuotatore
e seguendo le istruzioni di chi più di lui vedeva
lestamente portò a riva zio Dittongo e la comare,
sani, salvi e un po' bagnati, ma asciugarli non poteva.
“Per gli gnomi di foresta! Guarda lungo la corrente!”
gridò forte la comare rivolgendosi al messere.
Era il bel vestito rosso ad andar via velocemente,
il ruscello lo portava a ricongiungersi col mare.
Zio Dittongo anche se muto, cacciò un urlo prepotente,
ma il messer Binocoluto, ancor privo degli occhiali,
con la voce triste disse: “Io non vedo proprio niente,
dite tutto, che succede, ancor non son finiti i mali?”
“Disgraziati! Quel vestito, non sapete a chi appartiene?”
disse ancora la comare con le lacrime sugli occhi
“Era di Babbo Natale! Ma pensate quante pene
soffriranno quei bambini a cui non giungeranno i pacchi!”
Ma il messer Binocoluto, ch'era come pochi saggio,
pensò ad una soluzione, senza ben sapere quale,
quindi disse senza attesa, appoggiandosi ad un faggio:
“Non è solo col vestito che si fa Babbo Natale.”