giovedì, agosto 31, 2006

Lotta di classe

Stanotte, mentre mi rigiravo nel letto cercando la posizione migliore per liberarmi dal gas intestinale in eccesso (o forse cercavo una buona posizione per dormire, chissà), mi è tornato alla mente un episodio accaduto quando avevo circa 15 anni (uno o due secoli fa, quindi).
Assieme a due amici mi trovavo in un locale del mio paese che allora si chiamava Gorky, se la memoria non mi inganna. Stavamo seduti su una panchina, nel giardino del suddetto locale, e nella panchina vicino alla nostra sedevano tre giovani pulzelle che parlavano tra loro e ogni tanto buttavano un occhio nella nostra direzione (come peraltro facevamo noi verso di loro). A questo punto, uno dei miei due amici attacca bottone (a quei tempi ero piuttosto timido) e comincia a far domande. Non ricordo in che modo, ma il discorso è caduto su ciò che loro pensavano di noi. Mi rimase impresso il fatto che riuscirono a rispondere con un'espressione tanto ridotta quanto significativa, almeno per loro: ci definirono "quelli che studiano".
Ero stato classificato, etichettato, giudicato perché ogni giorno mi svegliavo la mattina alle 6, prendevo un treno e rientravo a casa alle 15 del pomeriggio, per poi passare una (piccola) parte della serata sui libri.
La definizione, nonostante le apparenze, era tutt'altro che lusinghiera, perché sottintendeva tutta una serie di sotto-definizioni più specifiche e meno interpretabili: "puzza sotto al naso", "saccenti", "narcisisti" e via discorrendo.
Allora la cosa mi fece sorridere e, da buon narciso quale venivo definito, pensai a quanto fossero stupide e superficiali. Con il senno di poi però ho capito che, in parte, facevo lo stesso. Ricordo che anche per me loro erano "quelli che non studiano", e sebbene non lo vedessi come un fatto negativo in se, li classificavo comunque, escludendoli in qualche modo dalla cerchia di cui ero invece parte integrante.
Allora, nella mia quasi totale ignoranza e immaturità, non mi resi conto di quanto fosse pericoloso questo modo di pensare: classificare, etichettare.
Oggi siamo tutti classificati. Ebrei, cristiani, musulmani, americani, palestinesi, italiani, cinesi, neri, zingari, commercialisti, omosessuali (si, li ho messi vicini di proposito), eccetera. Tutti subiamo l'onta o l'onore di ricevere una o più etichette. Se l'etichetta è riconosciuta come buona dalla morale comune, allora stiamo a posto.
Dopo che abbiamo un'etichetta addosso è difficile scrollarsela di dosso.
Un cinese? Tutti uguali. Occhi a mandorla e abiti contraffatti.
Uno zingaro? Zozzo e ladro.
Un musulmano? Terrorista.
Ci hanno provato anche i tedeschi ad ettichettarci, prima della sfida mondiale. Ci hanno dato dei pizzettari e si sono trovati due belle pizze calde nella loro porta.
Ma gli uomini (e le donne) dove li mettiamo? Le persone con le loro idee? Non voglio credere che tutti i musulmani siano dei Bin Laden, come non credo che tutti gli italiani siano dei Totò Riina.
La classificazione è la base dell'odio. L'odio personale è raro, l'odio verso un gruppo di persone nettamente identificato è invece consuetudine omertosamente accettata.
Un esempio semplice e banale? Basta guardare gli stadi di calcio. In quel caso la classificazione è portata, da alcuni, fino all'eccesso della violenza.
Se il classificare porta a conseguenze così tragiche in un campo di calcio, come possiamo stupirci dei risultati che questo nostro modo di pensare porta nel mondo reale?

mercoledì, agosto 30, 2006

Siamo fuori dal tunnel

Mai appisolarsi dopo aver mangiato pesante, può nascerne solo un incubo.
Mi ritrovo in macchina con un amico, mentre andiamo a raggiungere due amiche che ci aspettano in non so quale locale di Cagliari. Una di queste due mi piace, ma non riesco mai ad avere con lei un incontro ravvicinato, per cui sono tutto eccitato per l'opportunità della serata.
Arriviamo al locale, una sorta di palestra delle dimensioni di un campo di calcio con dentro poco meno di un milione di persone e altrettanti tavolini.
Con incredibile facilità troviamo il tavolino delle nostre amiche, le quali si sono (vi ho già detto che era un incubo, vero?) già date da fare; al loro tavolo infatti ci sono già seduti dei bei maschioni.
Ma mentre ci avviciniamo, il tavolino diventa un tavolo da pranzo rettangolare, a un capo del quale ci sono le nostre due amiche con i nuovi amici e al capo opposto sediamo noi.
Improvvisamente anche noi ci troviamo circondati da ragazze e ragazzi sconosciuti (ma con volti oniricamente familiari), con i quali cominciamo a parlare con immensa naturalezza, come se ci conoscessimo da anni (certo, dove altro può capitare se non in un incubo?).
A un certo punto, questi ragazzi ci invitano ad andare con loro chissà dove. Al che mi avvicino all'amica che mi piace e le chiedo se le va di venire con noi. Lei declina l'invito, dicendo che i ragazzi che stanno con loro sono automuniti e possono tranquillamente accompagnarle (le sue parole esatte sono state: "LUI ha 19 anni, può guidare". Si, ma pelo pelo, pedofila.). Stronza (è il mio incubo, posso insultarla quanto mi pare)!
Il mio amico ed io ci avviamo verso la macchina, che ho parcheggiato vicino a dei cassonetti della spazzatura. Casualmente, metà del milione di persone che si sollazzava nell'immenso locale sta andando dove andiamo noi (ci sarà un rave in un campo di pallanuoto?). Allora mi affretto, per evitare la coda di automobili che sicuramente si formerà. Arrivo alla macchina e non c'è nessuno nei paraggi, ma un piccolo cassonetto blocca l'uscita. Però che fortuna, ha le ruote ed è leggero, lo spingo da parte. Mentre torno verso la mia auto, arriva un cassonetto della spazzatura guidato (si, guidato, non spinto) da un uomo abbastanza incavolato; pare che gli abbia fregato il parcheggio! Sistema il suo cassonetto Ford (o forse era un Volkswagen?) davanti a quello che avevo appena spostato e si allontana sbraitando.
Finalmente in macchina, ma devo sbrigarmi: il fiume di gente sta arrivando. Infilo la chiave di accensione e la giro. Niente. L'auto non vuol saperne di partire. Guardo sconsolato il mio amico che se la ride seduto di fianco a me.
Sono in discesa, decido di provare il tutto per tutto. Tolgo il freno a mano e lascio scivolare all'indietro la macchina. Con una manovra degna dei migliori Starsky ed Hutch riesco a raddrizzare la mia Focus, mettendola muso a favore della discesa e provando ad accenderla sfruttando la forza di gravità (fortuna che si trova anche negli incubi).
Niente.
Silenzio assoluto.
A un certo punto mi rendo conto di non vedere dove sto andando. Invece di avere davanti a me il parabrezza, vedo la parte laterale della macchina, con il montante da cui parte la mia cintura di sicurezza proprio davanti al naso.
"Cacchio" mi dico, "questa macchina è proprio storta. Che mi abbiano tamponato e non me ne sia accorto?"
Certo, se non fossi stato immerso in un incubo mi sarei subito reso conto (grazie alla mia immensa intelligenza) che sarebbe servito un treno merci con 50 vagoni carico di piombini da pesca lanciato a 200 kilometri l'ora per storpiare un'auto a quel modo, ma in quel momento mi è sembrata la naturale conseguenza di un leggero tamponamento in parcheggio.
Cerco di fermare l'auto a bordo strada ma è difficile, molto difficile; ho il timore di sbattere da qualche parte perché non riesco a togliermi da davanti la cintura di sicurezza. Il bello è che da qualunque parte giri la testa ho sempre la cintura di sicurezza davanti agli occhi (non sono certo di avervelo già detto, ma si tratta di un incubo).
Decido di frenare senza prestare troppa attenzione; l'operazione riesce senza danni apparenti.
Scendo dalla macchina, vado sul davanti per verificare i danni e la guardo con attenzione. A parte il fatto che più che una Ford Focus sembrava una Fiat Punto taroccata (ovvio direte voi, era un incubo!), la macchina sembrava dritta. La frustrazione cominciava a montare in me (nell'incubo ovviamente, nel mio corpo sul divano era già montata a causa della stronza).
Nel frattempo, il mezzo milione di persone che emigrava dallo stadio coperto alla nuova meta mondana passava vicino a noi; tutti a piedi. "Normale" avrei detto da sveglio "il treno di piombini da pesca deve aver preso anche le loro automobili."; però sembravano molto più sereni di me.
Mi sposto sulla parte posteriore dell'auto e anche li sembra tutto a posto. Faccio per tornare davanti ma con la coda dell'occhio vedo qualcosa di strano. Sull'angolo posteriore destro dell'auto c'è un piccolo graffio. Mi avvicino per controllarlo meglio e il graffio diventa un grosso bozzo. Disperato, volgo il mio sguardo verso la ruota posteriore sinistra che risulta completamente sgonfia e deformata (la soluzione, se fossi stato sveglio e non in un incubo, sarebbe stata ovvia: avevo lo sguardo di Ciclope degli X-Men e qualunque cosa guardassi veniva distrutta. In quel momento non mi sarebbe dispiaciuto intravedere la stronza di cui sopra in mezzo alla fiumara di gente).
"Ma porca troia" ho pensato sia nell'incubo che nel dormiveglia "mi hanno tamponato e bucato una gomma". Che uomo perspicace sono quando sogno.
Guardando meglio la ruota posteriore sinistra mi accorgo che è molto storta (ecco spiegato il fatto della cintura sempre davanti agli occhi). Ma guardando meglio non solo è storta, piuttosto NON è la ruota della mia macchina!
E' una ruota di Vespa 50 Special, completa di tutto il retrotreno, corpo motore e leva di accensione compresi! A questo punto la mia frustrazione diventa furia purissima. Strappo tutto il retroreno della Vespa (che, ricordo, stava attaccato alla mia Ford Focus) e lo scaravento sul marciapiede. Mi accorgo solo in quel momento che sto su un ponte, con un enorme fiume che scorre sotto di me.
E mi sveglio, leggermente sudato, con il cuore a mille.
Mai appisolarsi dopo aver mangiato pesante.

martedì, agosto 29, 2006

Il senso della vita

Scatto eseguito dal caro, vecchio GeronimusComunque la guardi, la vita è strana. Molto strana.
Per esempio, è una verità innegabile che tutti noi siamo fatti della stessa identica sostanza delle più intelligenti, creative, magnifiche forme di vita dell'intero universo. Inoltre, siamo composti della stessa materia delle montagne più poderose sul nostro pianeta e delle stelle più luminose della galassia.
Ovviamente, questo discorso vale anche per le patate, le lumache e il polpettone. E forse è proprio per questo che la vita talvolta non sembra avere un gran senso.
Tanto per cominciare, perché ci lasciamo impressionare e ossessionare da oggetti e imprese di enormi proporzioni, quando in realtà sono le cose minuscole, una volta messe insieme, a rendere possibili le grandi? Perché cerchiamo di crearci piccoli mondi privati illudendoci di avere sotto controllo la nostra intera esistenza, quando sappiamo con assoluta certezza che non è affatto così?
Perché non facciamo che insistere sull'individualità come se fosse la nostra vera essenza, e poi finiamo per accettare un livello degradante di conformismo in ogni aspetto della vita? Perché i bambini credono nelle fate e gli adulti no? E perché ci intestardiamo così tanto sulle questioni che ci dividono, quando in realtà sono proprio le nostre differenze a rendere interessante la vita?
In fondo, mezzo mondo è a testa in giù, perciò non c'è assolutamente alcuna ragione per essere sempre tutti d'accordo su ogni cosa. Persino una regola così basilare e profonda come "Non masticare con la bocca aperta" è meno ampiamente accettata di quanto si pensi.
Perché se si scatenano le passioni noi scegliamo di discutere e combattere, quando ballare il cha cha cha è meno dannoso, di gran lunga più divertente e ugualmente efficace per sciogliere la tensione?
E perché ci sentiamo attratti l'uno dall'altro in quanto membri della stessa specie, ma costruiamo barriere difensive intorno ai nostri più profondi sentimenti e convinzioni per non essere mai veramente intimi con qualcuno?
Forse la confusione nasce dal fatto che la vita non è mai ciò che sembra. E' tipico della nostra specie essere ossessionati dall'apparenza esteriore. Tutti noi osserviamo quello che ci circonda attraverso dei filtri, per vedere solo quello che ci piace. Quando alla fine apriamo gli occhi, rischiamo di rimanere shockati dalle immagini distorte della realtà che abbiamo costruito per soddisfare i nostri meschini piani. Rimossi quei filtri, possiamo guardare con più attenzione dentro di noi e porci delle domande obiettive sull'universo e il nostro posto in esso.
In altre parole, possiamo ricercare il senso della vita.
Che cos'è allora la vita? Be', spesso senti dire che "la vita è un viaggio", ma verso dove esattamente? Alcuni dicono che non è altro che l'acquisizione della conoscenza. Se è vero, perché allora le persone sveglie si vestono sempre così male? C'è anche chi dice che la vita non ha uno scopo preciso ma, semplicemente, "scorre". Oh, che "profondità"! Altri ancora sostengono che siamo al mondo solo per creare una famiglia. Dopotutto, il disperato bisogno di riprodursi è impresso nella mappa genetica di ogni essere vivente. Questo significherebbe che la nostra intera esistenza è guidata da stimoli sessuali primitivi. Certo, può andar bene per un lungo week-end, ma per tutta la vita? Non penso proprio.
In realtà... vieni un pochino più vicino e ti svelerò un segreto...
TUTTE QUESTE IDEE SONO DELLE SCIOCCHEZZE COLOSSALI!!!
L'unico argomento che ritorna costantemente in tutte le teorie popolari sulla vita è l'amore. L'amore, in tutte le sue fragili forme, è la sola potente, tenace forza che da un vero senso alla nostra esistenza quotidiana. Naturalmente, non sto parlando dell'amore romantico "smack-smack", sebbene questo sia di per sé una cosa straordinaria. E' comprovato che un cuore spezzato provoca più dolore del succo di limone spremuto sopra una profonda ferita. L'amore che intendo io è il fuoco che brucia dentro tutti noi, il calore interiore che salva la nostra anima dal gelo degli inverni della disperazione.
E' l'amore per la vita stessa.


Tratto dal fotolibro "Il senso della vita", di Bradley Trevor Greive

lunedì, agosto 28, 2006

Un uomo chiamato cavallo

Grandioso film, anno 1970, con uno strepitoso Richard Harris. Sebbene il tremendo rito di iniziazione a cui la tribù indiana sottopone il povero inglese sia di quelli da "ma chi me l'ha fatto fare", il premio ricevuto in cambio vale sicuramente il prezzo pagato. Se non capite di cosa sto parlando, andatevi a vedere il film!
L'unico legame tra questo film e il fine settimana appena trascorso è la parola "cavallo". Si, perché finalmente sono riuscito a salire nuovamente in groppa al nobile animale, per la terza volta in assoluto, dopo tanto tempo. La panoramica del giro non è stata delle migliori, ma la gioia che si prova nel montare un essere senziente (Lo giuro! Non ho pensato a nulla di malizioso! Tu invece si!) è un'emozione rara e preziosa.
In effetti a questo giro non avrei dovuto neppure esserci, non c'erano posti sufficienti per tutti quanti. Ma il forfait dello zio Pino all'ultimo minuto e la generosa rinuncia a mio favore (grazie Melanzana) degli altri aspiranti cavallerizzi hanno fatto si che potessi infilare le staffe e tenere le redini una volta ancora, in una bella, anche se un po' ventosa, serata di agosto.
E così, alle 5:30 del pomeriggio di sabato, Michela, Pasticcino ed io ci siamo diretti verso il maneggio sulla mia prode vetturina. Siamo arrivati al maneggio puntuali come tre scarse imitazioni di orologio svizzero, ma il turno precedente non aveva ancora fatto ritorno e abbiamo avuto tutto il tempo di guardarci intorno. Nella stalla c'era una bella cavalla bianca irrequieta, che ogni tanto girava il suo muso per guardarci in cagnesco (un cavallo che guarda in cagnesco? Sarà possibile?). Pasticcino era tesa come una corda di violino, sembrava stesse aspettando il suo turno per ricevere l'estrema unzione (e per lei è cosa molto più grave di quanto non possa esserlo per un comune cristiano), Michela era tranquilla come una neonata alla sua poppata della sera (che immagine!), mentre io ero impaziente di vedere da vicino i cavalli che ci avrebbero portato sulla groppa. Sono rimasto un po' male quando mi hanno fatto indossare il caschetto ma vabeh, la sicurezza prima di tutto; in effetti faceva pandane con la mia shirt da battaglia e i vecchi jeans da cavalcata selvaggia.
Montati in sella e ricevute le prime istruzioni (spiegato insomma l'uso dell'acceleratore, del freno, del sistema sterzante... ma la frizione? Avrà mica il cambio automatico il mio cavallo?) abbiamo cominciato a girare all'interno dello steccato, giusto per formare una colonna ordinata. Vabeh, ordinata... si fa per dire; non fosse stato per i cavalli ormai avezzi al percorso sono certo che ci saremmo ritrovati a giocare una partita di polo senza mazze, con giù una o più palle a forma di caschetto (eh si, "polo" non è solo un buco con la menta intorno). Comunque sia, sono stato eletto capofila, in quanto potevo vantare altre (udite udite!) due uscite a cavallo e devo ammettere di essere stato oltremodo bravo a pigiare l'acceleratore quel tanto sufficiente a far andare al passo l'indomabile animale. Dietro di me, a due lunghezze di distanza (notare come padroneggio il linguaggio equestre), si piazzava Pasticcino, in groppa al suo Goliat (che oltre alle titaniche minzioni e il proporzionato augello aveva ben poco a che fare con il mitico nemico di Davide), che per metà dell'escursione ha mantenuto un'espressione estasiata, con un sorriso quasi ebete a coronamento di ciò che probabilmente pensava: "Il mondo è mio, io sono dio, ho il cavallo più figo e ora sorpasso quell'idiota che ho davanti. Beeeello!". La foto che sono riuscito a rubarle piazzandomi la fotocamera sulla schiena e scattando un po' a caso non rende l'idea di quanto fosse felice di stare "lassù". Ovviamente, l'idiota davanti ero io.
Ad una distanza variabile fra una e quattro lunghezze viaggiava Pippo, che portava a spasso la Michela (notare la dizione volutamente nordica) la quale, nonostante la vicinanza e le continue indicazioni del Top Gun (trad: il pistolone) dei cavalli non ha fatto suo il sistema di pilotaggio del quadrupede il quale, di tanto in tanto, si sollazzava amabilmente con le diverse foglie, erbe, canne (insomma, qualunque prominenza floristica che fosse minimamente masticabile) che trovava sul percorso, preparandosi forse per una kermesse culinaria con il resto della combriccola equina.
Il percorso in effetti non era il massimo, ma il godere del senso di libertà che regala il semplice stare su un cavallo ha compensato la non troppa varietà del paesaggio. Siamo passati sulla spiaggia, sebbene molto distanti dall'acqua, e ho provato l'ebrezza di vedermi additare dai bimbi ("Guarda papà, un cavallo!". O cacchio, non stavano additando me ma il mio sottoposto!) nello stesso modo in cui, da piccolo, indicavo i cavalli vedendoli passare sulla battigia; li ricordavo molto più grandi in effetti, ma da piccolo anche mia madre sembrava gigante, mentre ora la sovrasto di ben oltre una spanna.
Tra qualche sosta per lo scarico dei liquidi in eccesso dei nostri mezzi di locomozione e qualche altra necessaria al recupero dello chef Pippo e della sua amazzone, il nostro giro è durato circa un'oretta. Nell'ultimo tratto, il cavallo della nostra guida che stava giusto davanti a me, ha ben pensato di disattivare il filtro antismog e liberarsi dei gas di scarico, deliziando me e risvegliando Pasticcino dal suo stato di incoscienza estatica con delle affascinanti peto-musiche. Per nostra fortuna, gli effluvi generati non rendevano affatto merito ai suoni emessi; un punto a favore dell'equino.
Alla fine dell'escursione sono rimasto un po' con il mio amico il quale, a un certo punto, si è rotto di avermi tra le scatole e ha cercato di stritolarmi con una mossa da fare invidia al boa più grosso del Rio Grande. Fortuna che l'occhio digitale di Pasticcino (mostro questa foto per sua gentile concessione non ancora richiesta) era vigile, così posso mostrare al mondo le prove dell'episodio di cui parlo in tutta la sua tragica verità. Immagino nessuno possa evitare di intravedere lo sguardo assassino negli occhi dell'animale (l'animale è quello marrone).
Insomma, tra frizzi, lazzi e gesti istrionici ho passato un'oretta piacevole, rilassante e stimolante allo stesso tempo; un'esperienza che spero di ripetere presto.

giovedì, agosto 24, 2006

La luna

Che luna, vero?
Per quanto ci si sforzi di ricercare il senso delle cose, nulla può eguagliare l'estasi che provoca il rimirare le istantanee offerte dalla natura. Albe, tramonti, panorami mozzafiato, spiagge affollate, temporali agostani; l'estate sembra essere la stagione catalizzatrice di visioni straordinarie.
Potete ostinarvi a cercare un dio dell'infinito, credere fermamente nella reincarnazione, ipotizzare l'esistenza di un'anima atemporale che abbia uno scopo a noi sconosciuto e forse incomprensibile, ma nulla mi toglierà mai dalla testa che lo scopo vero della vita sia la vita stessa, la sua scoperta, l'estensione della conoscenza, la soddisfazione della curiosità. Ma la vita va ben oltre questi stimoli puramente egoistici; la vita è molto altro, è il rapporto con gli altri, la conoscenza di personalità diverse dalla propria, il confronto (anche duro) con esse, la propria crescita grazie al loro apporto spesso inconsapevole. Sarà forse egoistico o egocentrico, ma porto con me l'incrollabile certezza che il mio rapporto con chiunque incontri contribuisca positivamente alla crescita, al miglioramento, alla conquista della consapevolezza di se. Perché noi siamo, non ho alcun dubbio amletico a riguardo. Siamo ciò che scegliamo di essere ed è questo che conta, non ciò che gli altri vedono in noi.
Voi non potete vedere ciò che io vedo in questo tramonto; ci vedo i giorni di contorno, ci vedo il punto da cui ho scattato il fotogramma, vedo la mia Ford Focus dietro di me con dentro gli amici che aspettano il mio scatto, sento la fredda brezza primaverile che mi sferzava le guance, ricordo il commento di Marco che mi diceva che non era un bel tramonto e non poteva nascerne una bella foto. Non sarà perfetta, eppure la foto è bella; il tramonto immortalato è sicuramente molto più carico di emozioni di quanto non fosse in realtà.
Io ci vedo uno splendido paesaggio e la mia gioia nel riprenderlo. In quel momento mi sono sentito vivo, senza bisogno di alcuno scopo, perché il senso della vita stava in quello che facevo, inesorabilmente racchiuso nella mia serenità.

mercoledì, agosto 23, 2006

Le cinque stirpi

Ho finito di leggerlo giusto ieri. Senz'altro un bel libro fantasy, ben scritto e ben curato, sebbene a tratti rallenti troppo e ricada in qualche banalità. Si legge a rotta di collo fino ai tre quarti, per poi rallentare un po' per un centinaio di pagine. Superate queste, si torna ad una lettura fluida e coinvolgente.
Se amate il fantasy e simpatizzate per i nani è un tomo che non può mancare nella vostra libreria. I nani sono infatti i protagonisti indiscussi delle quasi 640 pagine che compongono la storia, reggendo nelle loro piccole ma possenti mani il destino della Terra Nascosta, minacciata dal male proveniente dalla Terra Estinta.
A mio parere mancano un po' di dettagli; sarebbe stato interessante qualche flashback per chiarire la situazione attuale. Un pochino di cattiveria in più nel finale non avrebbe certo guastato, ma capisco che è difficile rinunciare ai personaggi a cui ci si affeziona mentre si scrive.
Il finale lascia comunque qualche spiraglio per un seguito. Non ci resta quindi che sperare nella fantasia dell'autore.

Titolo.: Le cinque stirpi
Autore.: Markus Heitz
Editore: Editrice NORD
ISBN...: 8842914339
Prezzo.: 19,90€

martedì, agosto 22, 2006

Il re leone

Ecco la testa di un fiero leone, intento a scrutare il tramonto sul mare di Sardegna.
C'era veramente un bel tramonto quel giorno. Vincenzo, Mattia ed io siamo stati in acqua fino allo scomparire totale del sole e della luce diffusa. Non fosse stato per la splendida luna quasi piena, avremmo rischiato di nuotare verso l'Africa invece di tornare a riva.
Strani giochi fa la nostra mente, con la capacità di cercare e trovare forme familiari fra le rocce, le nuvole, gli alberi, persino nei dipinti e in altre opere d'arte. Così vediamo visi nascosti, forme celate e supponiamo (o speriamo) che abbiano un significato e non si trovino li solo per caso.
Forse è lo stesso meccanismo che ci porta a conformare chi abbiamo intorno, a idealizzare le persone che ci piacciono perché vorremmo che fossero ancora più vicine a ciò che desideriamo che siano.
Dopotutto in questa foto ho immortalato solo una roccia, ma a me piace vederci la testa di un fiero leone.

lunedì, agosto 21, 2006

Prima dell'alba

At last!
Finalmente sono riuscito ad immortalare un'alba. Non era delle migliori, lo ammetto. Una leggera bruma ha reso i colori di questo sole che sorge molto più simili ad un tramonto, ma ciò che è stato bello non sono gli scatti risultanti, ma il percorso seguito per ottenerli.
Sveglia alle 5:45.
La tragedia nel rendermi conto che era ancora buio.
L'attesa dello schiarirsi con il corpo avvolto nel sacco a pelo, sul pavimento della casupola sul monte che ci ha ospitati.
Piazzare la mia fida Canon Powershot G6 sul largo muretto rivestito in cotto che delimita il terrazzo.
Attendere di vedere lo spicchio di sole che sorge, con sotto il fantasma di una nave passeggeri che passa e che il buon Mattia ha sostenuto fosse una nuvola fino a quando la ragione non ha prevalso sul suo sonno da tricheco.


Sperare (vanamente) nel dissolversi della bruma, per cogliere quei colori pastello tipici di un'alba serena.
Seguire l'ultima caccia dei pipistrelli, prima del loro ritiro nei rifugi protetti dal sole e dal calore che sicuramente trovano chissà dove.
Ascoltare i primi cinguettii degli uccelli, scorgere i loro primi timidi voli, seguirli per vederli atterrare vicino alle piccole pozze d'acqua create dall'umidità della notte, per abbeverarsi, impavidi nell'ora in cui, solitamente, nessuno li disturba.
Vedere i primi veicoli del mattino, o forse gli ultimi della notte, sfrecciare sul lungomare.
Cominciare ad avere difficoltà nell'ascoltare il rumore del mare, che fino a pochi istanti prima era stato l'unico suono udibile, sovrastato dal rumore del giorno.
Ammirare la palla di fuoco che comincia ad emanare il calore e la luce che gli sono propri.


Nel frattempo pensare, vagare con la mente, ricordare.
Un pensiero ad un'amica speciale che non sentivo da tanto tempo, con la quale avrei condiviso volentieri la vista dell'alba.
Tradurre questo pensiero in un misero sms, sperando che lei colga la gioia che questo pensiero mi ha dato nel preciso istante in cui la mia mente lo ha generato.
Attendere ancora un sole migliore, un riflesso più nitido, un colore più esaltante, lo scatto perfetto che non arriverà mai.

domenica, agosto 20, 2006

Le parole che non ti ho detto

Parlare, il dono forse più grande e nel contempo più difficile da usare.
E' così semplice: ho qualcosa da dire? La dico, punto.
E invece no. La maggior parte delle volte sottintendo, alludo, ommetto, taccio.
Perché?
Se lo sapessi probabilmente non sarei qui, a buttar giù questi pensieri in una calda serata domenicale di Agosto. Magari sarei con la persona a cui non ho detto le cose che vorrei, oppure sarei con gli amici, libero dall'illusoria speranza che la risposta che bramo possa essere quella che vorrei. Perché in fondo è questo che mi impedisce di esprimere chiaramente quanto avrei da dire: il mantenere viva quell'illusoria speranza che la risposta possa essere uguale a quella che desidero e non quella che è in realtà.
Un "si" sarebbe la felicità, seppur fugace e fragile come sempre.
Un "no" abbatterebbe le mie speranze, taglierebbe quel filo a cui ho legato la felicità che vorrei raggiungere, che galleggia a qualche metro da me come un palloncino pieno di elio; aprire la mano e liberare il filo servirebbe a stabilire che sia io a tenere il palloncino legato a me oppure se non sia lui a volermi rimanere vicino. Ma aprire quella mano significherebbe avere una risposta. Il non averla, invece, mantiene il palloncino a mezz'aria: posso vederlo, ammirarlo, sperare che condivida le mie brame, ma non posso averlo né perderlo completamente.
Non è il giusto modo di affrontare le cose, lo so bene. Occorre rischiare, mettersi in gioco, tentare di avere l'attimo di felicità con il rischio di piombare nella tristezza, piuttosto che rimanere nel limbo dell'incertezza.
Eppure è difficile trovare il coraggio di rischiare, come prima di un tuffo dallo scoglio più alto sul mare immobile, dove il fondo di sabbia chiara si confonde con la superficie del mare trasparente.
Forse ha ragione la madre di Forrest Gump con il suo memorabile proverbio "La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita". Dovrei scartare questo "cioccolatino", assaggiarlo, gustarne il sapore e non crucciarmi troppo se il liquore che lo riempie è più amaro dell'olio di ricino. Dovrei mangiarlo tutto in qualunque caso, perché nella mia scatola di cioccolatini ce ne sono ancora tanti. Dovrei rischiare un "no" per aspirare al "si", senza dubbio, dovrei...